Covid-19. Prima ondata. Una storia
Messaggio per Bruno Vespa
Giovedì 8 aprile 2021 11:50:02
Sig. Bruno Vespa buongiorno.
Da abruzzese a abruzzese, stamane ho avuto l'istinto di inviarle questo messaggio.
Oggi, 8 aprile, è passato un anno dalla mia pubblicazione - sulla pagina Facebook del paese - della lettera che trascrivo a fine e-mail.
Era giovedì santo e esattamente il giorno di Pasqua, il 12 aprile, mio padre sarebbe morto (ma a me piace pensare che in quel giorno non si possa che resuscitare), dopo circa quattro settimane intubato.
Erano i giorni della famigerata "prima ondata" e il virus si trovava per lo più in Lombardia; dalle nostre parti si sentiva poco o niente riguardo a ipotetici contagi, forse un paio di casi, ma che di certo non riguardavano il piccolissimo paese che di lì a poco sarebbe diventato la prima (e unica) zona rossa della provincia di Chieti.
Il tutto ebbe inizio il 5 marzo 2020 con la morte del "leggendario" proprietario dell'unico bar (un'attività di famiglia, avviata prima della seconda guerra) del paese, Maurizio, ma nessuno pensò al virus, piuttosto si ipotizzò un infarto. Un paio di giorni dopo, avuti i risultati del tampone voluto preventivamente dai familiari (Maurizio comunque aveva avuto febbre e gestiva un bar, per cui, dato che quotidianamente si sentivano notizie sul virus meglio sincerarsi) il buon Maurizio divenne la prima vittima abruzzese del coronavirus. Immediatamente fu il panico.
Da quel giorno iniziò un calvario e, da parte mia, sentii addosso tutto il significato della settimana santa, la sua essenza che, se con il terremoto de L'Aquila, non troppi anni prima, mi aveva dato molto su cui riflettere, adesso che il virus lo avevo dentro (e non a distanza di duecento chilometri come nel caso del terremoto) non riuscivo nemmeno a pensare; paura, ansia, malessere, un terribile senso di impotenza: queste sono alcune delle sensazioni che ricordo lucidamente... insieme a un soffocante senso di colpa (perché quelli che accusano non mancano mai).
Poche settimane dopo ci trovammo in ospedale (in camere/settori diversi) io, con flebo più o meno continue perché non riuscivo più a mangiare (e non so dire quanti chili abbia perso), il mio compagno con l'ossigeno e mio padre intubato.
Fortunatamente me la cavai con pochi giorni di ricovero (una settimana circa, il tempo di reidratarmi credo dacché la mia polmonite non peggiorò) ma, rientrata a casa (a Lanciano), ebbi tutto il tempo di vivere nella solitudine più totale (nessuno poteva venirmi a trovare perché uscii dall'ospedale ancora positiva e a quei tempi i tamponi erano meno veloci) "il martirio" toccato a papà, fino alla sua morte... anzi, al suo funerale, del quale ebbi testimonianza grazie ai pochi amici (per lo più affacciati ai balconi) che mi inviarono foto e video dal paese mentre il carro funebre lo portava al cimitero.
Caldari era diventata un cimitero di guerra ed ebbi modo di capire sulla mia pelle perché nonn' Alfredo, quando durante l'adolescenza gli chiedevo della sua esperienza in guerra, in alcuni punti si fermava e, distogliendo lo sguardo, mi diceva: "'scti còos è mejie ca tu nin li sié" ("queste cose è meglio che tu non le sappia").
Mi chiedevo che cosa quegli occhi lucidi avessero visto... ad oggi mi chiedo che cosa il suo cuore avesse "sentito" e se mai, in mezzo a quell'inferno, nello stesso momento in cui lo viveva, avesse avuto il tempo di "sentirlo"... ma il ricordo lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e col tempo forse avrebbe deciso di censurare le sensazioni peggiori che "a distanza" invece riusciva a oggettivare o, quantomeno, di non rivelarle a una nipote sedicenne... e forse sarà così anche per la generazione che ha vissuto il Covid-19, soprattutto per chi lo ha visto da vicino... da troppo vicino: rimarranno ricordi che a tratti toglieranno il respiro... e le parole.
Attualmente vivo con la consapevolezza che nonostante tutto siamo stati fortunati: poteva andare peggio, molto peggio...
Ho deciso di inviare la lettera che l'anno scorso scrissi nel giro forse di una settimana (durante i momenti della giornata in cui stavo meglio) perché da circa un anno sento quotidianamente parlare di "numeri" ma se mi fermo un istante a pensare, "scopro" che dietro a ognuno di quei numeri c'è un essere umano che se ne va, una vita, un progetto... c'è una storia: questa è quella di mio padre.
E mi auguro che un giorno ci sarà un'occasione per raccontare, un modo affinché coloro che hanno vissuto questo tipo di terrore possano lasciare la propria testimonianza alle generazioni future, così come i miei nonni hanno fatto con me.
Cordialmente,
Francesca Radico
LA LETTERA
Al mio paese. Con affetto.
Una storia.
Ciao Caldari.
Sono Francesca, la nipot di “Vincenz di Bonóm” e di “Alfred di Zulù”, la nipot di “lu Ddiégh” e di “Lisett”... nonché la fij di “Marij di Bonóm” e di “Duminicúcc’ di lu Ddiégh” ;)
Quello che è successo a Caldari ha dell’incredibile, io stessa ci sono dentro dall’inizio del mese di marzo; e tutt’ora, risultati alla mano, non ci posso credere.
Quando il nostro Maurizio è venuto a mancare, mio padre aveva già la febbre; dal giorno prima ci aveva detto (a me e mia sorella) di non stare troppo bene.
Giovedì 5 marzo, come tutti i giovedì, sono da lui.
La notte prima Maurizio ci lasciava, e la mattina in cui arrivo in paese, un’ombra si è già posata sui tetti, scivola sulle mura e investe gli abitanti. Si respira tristezza. Caldari è in lutto.
Salita in casa, mio padre era rosso in volto e con gli occhi lucidi (quelli tipici con cui mamma mi diagnosticava la febbre) e, come ogni anno nel periodo marzo-aprile, ho pensato: «Ecco qua, al solito si è beccato un malanno per quel suo vizio di uscire fuori senza giacca, dopo essere stato davanti al caminetto acceso». Non parlammo della sua febbre ma della dipartita di Maurizio.
Mia sorella e io, a cuor leggero, ci preparammo ai turni d’assistenza: per risalire la legna, comprare qualcosa da mangiare, prendere le medicine necessarie e quant’altro; insomma, tutto quello che un figlio farebbe per un genitore influenzato; e che in realtà, a cadenza stagionale facciamo perché papà puntualmente si becca qualcosa!
Intanto passano un paio di giorni e la febbre di mio padre – come da copione - da trentotto scende sotto i trentasette, grazie a due Tachipirine 1000. Il giorno in cui si sa della positività di Maurizio al coronavirus, papà nel primo mattino non ha febbre, però già a metà mattinata si affacciano i decimi.
Ma facciamo un passo indietro.
Per chi conosce mio padre, sa che il suo carattere non è il massimo: burbero, pignolo, amante delle sue idee, non va mai da nessuna parte, non gli piace uscire, non gli interessa avere relazioni sociali, insomma, un mix di “asocialità”! Ma a tratti sa anche essere simpatico e socievole, dipende da come gli gira e, appunto per il suo modo di “fare il buono e il cattivo tempo”, così come ha voglia, non poche volte io mi ci attacco! ! … però alla fine resta sempre mio padre, un padre che, sotto quella “corazza burbera”, ha un buon cuore.
Attenzione: su quel “non gli piace uscire” mi soffermerei.
Da quando è cominciata tutta questa storia del Covid19 ci hanno insegnato che il coronavirus è “un virus sociale”, te lo pigli se stai in mezzo alla gente, se viaggi, tant’è che nei primi casi sospetti la domanda era: «È stato all’estero recentemente»? «È rientrato dalla Cina»?
La Cina? ? ! Il massimo dell’uscita “fuori le mura” di papà è congelata al 1961, quando andò militare a Monza; a quei tempi forse sì che qualche sospetto di aver contratto il virus ce lo poteva avere, visti i luoghi italiani dai quali è cominciato il contagio.
Attualmente la vita di Duminicucc’ si svolgeva entro un raggio di 200 m intorno a casa: la posta, la farmacia, il negozio di alimentari a due passi; forse il punto più lontano da casa era l’orto (più o meno 500 m) e altra sua meta era la casa di nonna Luisa in piazza (negli ultimi tempi ci stava spesso per la ristrutturazione di cui era orgogliosamente contento, più di me che l’avrei abitata; era solito ripetere: «Aggiusctà ‘scta ches nin è bel sol pi nu ma pi Caglier! »; il senso era: sarà una casa che tornerà ad essere aperta e che contribuirà a far sì che Caldari viva!). L’ultimo suo appuntamento era con l’acqua frizzante, sempre in piazza: un paio di volte a settimana per riempire la bottiglia.
Papà non è un tipo da bar, non è un tipo da chiesa (luoghi canonici dei gruppi più numerosi), e l’affollamento più concentrato è quello che trova mmezz a Caglier per le due chiacchiere quotidiane. Poi se ne torna a casa davanti alla televisione e alle 7: 30 di sera sta a letto (a vidé Bonolis o Gerry Scotti e dopo lu telegiornal … se non si addormenta prima).
Questa è la sua “socialità”. Non c’è altro.
Nonostante la consapevolezza della sua “ristrettezza sociale”, non appena si è saputa la notizia della prima positività a Caldari, che ha portato al “primo caso di decesso in Abruzzo” (così mi sembra di aver letto), ho chiamato il 1500 (e tutta la tombolata di numeri che mi è stata fornita).
Era sabato 7 marzo, e papà aveva la febbre già da circa tre giorni (una febbre ambigua che andava e veniva, restando su pochi decimi).
Ai numeri utili è stato spiegato (da me al 1500, poi da mia sorella agli altri numeri - per altro lei stava fisicamente a Caldari, così anche papà parlò con gli addetti al servizio telefonico): «Chiamo da un paese nella provincia di Chieti, in Abruzzo, dove da poco è stato accertato un caso di morte per coronavirus. Mio padre, un uomo di 80 anni che nel 1998 ha avuto un’embolia polmonare, ha una febbre ambigua, debolezza, e qualche colpo di tosse».
Le domande dall’altro lato della cornetta furono: «Suo padre ha avuto contatti con l’uomo deceduto? Fa fatica a respirare? ».
Naturalmente le nostre risposte sono state negative: mio padre non aveva avuto contatti con l’uomo deceduto né tantomeno faceva fatica a respirare, ragioni per cui, secondo loro, non aveva niente di grave. Bisognava solo tenerlo sotto controllo, “in osservazione”, a casa.
Passano altri tre giorni. I decimi non desistono. Papà è debole. Non ha appetito.
Martedì 10 marzo invio un messaggio alla dottoressa che ha in cura papà e lei non ci pensa due volte; mi dice: «Domattina passa da me che ti faccio l’impegnativa per raggi al torace “urgenti”; con quella ti devono far passare al pronto soccorso. Mettiti la mascherina e vai a prendere tuo padre». I medici curanti, già a quella data, non potevano più fare visite a domicilio.
Il giorno dopo faccio esattamente quanto raccomandato, ma al momento in cui indosso la mascherina e la metto a mio padre (dicendogli: «Qualunque cosa accada oggi, tu questa non te la togliere» - lui già mi aveva detto: «Che ci ha fa’ gne quess? ? ») penso (incredula, perché tu non ci vuoi credere che tuo padre abbia potuto contrarre il coronavirus, anche perché non riesci a capire “come” se lo sia potuto prendere: a Caldari, davanti casa): «Se papà ha il coronavirus, credo proprio che questa mascherina oggi non mi salverà». C’ero stata a contatto – anche se “a distanza di sicurezza” (coronavirus o meno, io – notoriamente - ho paura di tutte le malattie) - per tutto il tempo, e da quando era cominciata la febbre era passata già una settimana. Con l’inquietudine nel cuore, accompagno papà al pronto soccorso di Ortona: in ogni caso, di certo non lo potevo lasciare a casa così conciato (non riusciva quasi più a mangiare ed era chiaramente debilitato).
Arrivo al pronto soccorso. Ci mandano direttamente ai raggi. Gli addetti allo sportello, quando vedono l’impegnativa e sentono “Caldari” mi ridanno il foglio con la prescrizione, si disinfettano le mani (coperte da guanti) e ci rimandano al pronto soccorso, evidentemente contrariati.
Il responsabile dell’accettazione al pronto soccorso, adesso, fa entrare papà. Una veloce visita e di nuovo ai raggi, ma questa volta scortati dall’infermiere.
Fanno entrare mio padre, io aspetto fuori. Sento le voci: un vociferare che diventa sempre più simile a una discussione che si fa via via più concitata; di nuovo esce il nome “Caldari”, e sinceramente inizio a agitarmi… più di quanto non fossi.
Sento dire a papà di spogliarsi ma la discussione fra addetti si fa sostenuta: lo fanno rivestire e uscire dalla stanza dei raggi. Papà cammina un po’ a fatica, si sta riallacciando la maglia e stiamo tornando verso il pronto soccorso mentre mi chiede se quello che gli dovevano fare gliel’hanno fatto; io lo guardo sorridente (solo con gli occhi perché avevamo le mascherine), sapevo bene che i raggi non gli erano stati fatti e che lui mi stava prendendo bonariamente in giro, ma tra me e me, lentamente – e con paura - si faceva strada il presentimento che qualcosa non andava, soprattutto se provenivi da Caldari; l’equazione mi pareva semplice: “sintomi” + “Caldari” ꞊ “coronavirus”; ma il tuo cervello non vuole saperne, non vuole assolutamente prendere in considerazione che tuo padre si sia avvicinato così tanto al virus…
Guardo papà (ed era difficile mantenere il sorriso) e gli dico: «Pa’, intanto torniamo al pronto soccorso, tu n’dì preoccupà».
Siamo di nuovo al pronto soccorso. Papà entra, io aspetto fuori. Ore. Da sola.
A un certo punto, dopo la lunga attesa, un medico tanto alla buona, senza protezioni, mi chiama e mi dice il suo punto di vista: «Ho visitato papà e, data l’età, non mi sembra che abbia qualcosa di grave. Adesso non ha la febbre; ho auscultato il torace e sento un leggero creptìo ma, data l’età, non c’è da preoccuparsi. Lo terremmo qui in osservazione ma lui non vuole restare, quindi può mettere la firma e lo osserverete a casa. Intanto lo teniamo ancora un po’ qua. Impegnare un’ambulanza per fargli fare i raggi a Chieti mi sembra esagerato». Praticamente – avevo intuito – a Ortona non concedevano più l’accesso ai raggi ai “casi sospetti”, andavano tutti a Chieti … ma se papà era “sospetto” perché non poteva andare a Chieti?
Torno a sedermi in sala d’attesa. E penso.
La dottoressa mi aveva mandata lì per dei raggi al torace. Il medico di turno riteneva che non fossero necessari, ma mi aveva anche riferito di aver sentito un “leggero creptìo” nel torace.
Gli avevo detto che papà era scampato a un’embolia polmonare negli anni ’90 ma lui mi aveva rassicurata dicendomi che l’embolia non faceva testo, non era un problema. Tuttavia, da ignorante, io ero preoccupata: “il creptìo” nei polmoni c’era. Aspetto. Aspetto. Aspetto.
Sono le 14: 30.
All’improvviso la porta che divide il pronto soccorso dalla sala d’attesa si spalanca e un nuovo dottore (questa volta con guanti e mascherina) protesta a muso duro: «Ho un uomo dentro che non dovrebbe stare qui; è di Caldari e mi riferisce sintomi per i quali va seguita una procedura e non doveva stare qui! ! Chi è il suo medico curante? ? Poi mi sentirà! ! ».
Impressionata, davvero impressionata (fino a poco prima mio padre non aveva niente e se ne poteva tornare a casa) gli dico che la settimana prima si era provato a “seguire la procedura” e che proprio il medico curante mi consigliò di chiamare il 1500, il 118 e tutto il resto ma, per tutti i numeri contattati, papà non aveva niente di grave.
Alla mia risposta ribatte: «La settimana scorsa era diverso, adesso a Caldari sono successe “delle cose”. Ora chiamo il 118 e faccio venire a prendere suo padre».
A quel punto non volevo stare più sola. Era stata una mattinata logorante.
Erano ore che aspettavo, con i dubbi nel cervello e con la paura che saliva…
Chiamo mia sorella (che nel frattempo, dati gli ottimistici responsi del mattino, era andata a Caldari a preparare il pranzo), le dico le ultime “novità” e la prego di raggiungermi; avremmo seguito in macchina l’ambulanza del 118 fino a Chieti.
Arriva mia sorella – con la sua mascherina. Due chiacchiere. Di nuovo attesa.
Alle 15: 30 ecco l’ambulanza.
L’addetta al prendere in consegna l’ipotetico infetto, scende dal mezzo e entra nel pronto soccorso. Dopo pochi minuti escono: lei, davanti, nella sua tuta spaziale, fa strada a papà che la segue col suo passetto lento e con la mascherina ben posizionata sul volto.
Mentre segue “l’astronauta”, lui si volta e ci vede che lo osserviamo passare; si rivolge a mia sorella, fa per venire verso di lei e dice: «Eh! Pur tu sctì ekk? ! » … un momento di tenerezza infinita. Ma la ragazza che lo scortava, per quanto dai suoi occhi mi sembrasse dolce e paziente nell’assistere pure lei a quella scena - ferma sulla porta d’ingresso - probabilmente aveva fretta, per cui dico a papà: «Va’ pà che fors l’ambulanz n’zi po firmà tanta temp». Lui va.
Si siede al suo posto e la signorina gli allaccia la cintura di sicurezza.
Prendo istruzioni per il pronto soccorso di Chieti e, ancora sicura – benché impensierita - di riportare presto papà a casa, con mia sorella andiamo a prendere la macchina. Mai avrei immaginato che da allora, noi, papà non lo avremmo più visto. È l’11 marzo 2020. Mercoledì.
Il pronto soccorso di Chieti è vuoto, nessuno in sala d’attesa, e si può entrare solo uno alla volta.
Il ragazzo dietro al vetro mi dice di tornare a casa: la cosa sarebbe andata per le lunghe e non era il caso di restare nei paraggi dato il grande numero di contagiati che quotidianamente passa di lì.
Esco dall’edificio e riferisco a mia sorella. Siamo indecise, disorientate, non sappiamo che fare.
Aspettiamo un po’, con le nostre mascherine, nel parcheggio del pronto soccorso.
La nostra speranza è la fiammella di un fiammifero acceso nel buio… ma poi, alla fine, non lo sai più nemmeno tu che cosa stai sperando; sei già stanco, psicologicamente stanco, e non sai che quello è solo l’inizio, l’inizio di momenti terribili di attesa, di ansia, terrore, immobilità… di solitudine; l’essenza dello “sconosciuto”, della paura che fa quello che non si conosce, è concentrata tutta in un virus che ti penetra nella carne e nell’anima.
La sera stessa, la prima telefonata dal medico dell’infettivologia di Chieti: papà è grave. Polmonite bilaterale. Il dottore è certo che si tratti di coronavirus ma nel frattempo che si aspetta il tampone, papà è messo in una stanza, isolato. Penso: «così solo, isolato, costretto a letto, abituato com’è a fare quello che vuole - quando vuole - impazzirà».
Nel giro di quattro giorni la situazione precipita rovinosamente: papà alterna momenti di lucidità a momenti di perdita di coscienza, è preda di stadi soporiferi innescati dalla mancanza d’ossigeno; non si alimenta, ha sempre più bisogno d’ossigeno.
Sono momenti di dolore assoluto, di disperazione, di pianto, di perdizione e impotenza; non puoi fare niente, puoi solo aspettare anzi, “devi” aspettare. Una situazione inumana.
Da esseri umani quali siamo, non siamo predisposti alla “non azione”, noi “dobbiamo” agire, dobbiamo fare, siamo abituati a cercare la soluzione per il problema, ma in questo caso “il problema” è che non puoi agire; devi lasciare che il tempo faccia il suo corso, soprattutto non puoi avere fretta. “Pazienza” è la parola d’ordine.
Quando si era trattato di mia mamma, la sua malattia era stata certo dura da affrontare, ma lo si era fatto insieme: la si accompagnava in ospedale, la si andava a trovare quando era ricoverata, la si accompagnava per la riabilitazione; ci si poteva chiacchierare e litigare, la si poteva baciare, accarezzare, abbracciare… e Dio solo sa quanto siano importanti un abbraccio, una mano tenuta stretta, un bacio, una carezza: un solo sorriso può fare miracoli per un familiare ammalato… e per chi l’accudisce.
Nel caso di papà invece tutto si stava svolgendo con una velocità micidiale, spiazzante, e la cosa peggiore era (ed è) che non lo si poteva assistere, anzi, bisognava stargli lontano.
Riflettevo (e tempo per riflettere se ne ha davvero tanto, troppo): la situazione, nel caso del malato di Covid19, è questa: lui (il malato) è solo, tu sei solo. Ti fa compagnia il suo pensiero che costantemente ti gira nella testa, e la consapevolezza che, qualunque cosa accada, tu non puoi fare niente. Una percezione disarmante.
La personale condizione psicologica di tormento, angoscia e oppressione, si aggrava poi quando inizi a prendere confidenza col fatto che “probabilmente” tuo padre ha il virus e che “probabilmente” tu lo hai già dentro, e per questo devi stare lontano dal resto del mondo.
Ma tu non sai come fare, non sei preparato, o meglio, puoi adattarti a non uscire più di casa, a vivere isolato, ma come puoi isolarti e stare lontano da chi condivide la casa con te?
Come si fa? Come ci si organizza?
Privo di qualunque possibilità di difesa e senza soluzioni, devi trovare risposte ma non ne hai voglia, non hai voglia di “sistemare gli ambienti”, ma devi. Una sorta di “violenza su violenza” perché tu vuoi solo pensare a tuo padre, alla tua condizione di miseria morale e perdita di volontà.
È il 15 marzo. Domenica. Arriva la risposta del tampone: Domenico Radico positivo al Covid19.
Sai che in quell’attimo, anzi, a partire da quell’attimo, il tuo mondo fatto di fragili sicurezze costruite a fatica, è miseramente destinato a crollare; lo strazio è agghiacciante. Sai che non ti salverai, lo hai sentito per mesi ai notiziari, lo hai visto in tv: scene di una atrocità spaventosa ti hanno insegnato che “devi aver paura”, ti hanno parlato di morte e ti hanno inculcato che non c’è via di scampo. Questo è stato il messaggio arrivato ai nostri (o almeno al mio) cervelli dal tamburo battente mediatico.
Non riesci nemmeno a prendere in considerazione che, d’altro canto, se pur se ne parli poco, ci sono state delle guarigioni, tante… ma no, tu non riesci a pensarci e hai l’impressione di andare al patibolo (con la mia indole “tendente” all’ipocondria, la sensazione non poteva essere diversa).
Ma un impianto sentimentale già fatto a pezzi e a terra, non può più crollare; così, istintivamente, quel carico di amarezza, demoralizzazione e distruzione morale, paradossalmente ti sorregge quando stai per affrontare il peggio (se mai ci fosse poi una vera possibilità di distinzione del “peggio” in questa storia): sei libero di inorridire più di quanto tu non abbia già fatto, dal momento che hai i primi decimi di febbre e sai che anche tu svilupperai la malattia.
Sei distrutto da quello “che è già stato” e non fai in tempo ad aver paura per te stesso che già pensi di aver infettato chi ti è più vicino.
È più o meno scontato: quotidianamente condividiamo l’esistenza con le nostre famiglie (quelle d’origine e/o quelle che ci si costruisce poi) ; certo gli amici ci sono, ma giornalmente, “a stretto giro”, i punti di riferimento ci arrivano da un padre, una madre, un fratello, una sorella, un compagno, dei figli, insomma, il nostro mondo ruota attorno a una famiglia.
Bene, la ferocia del virus qui è spietata: la tua prima, più grande paura è quella di aver contagiato la/le persone alle quali tieni di più.
E questo non è niente se, nello stesso momento in cui stai soffrendo per un pensiero talmente crudele, pensi che potrebbero anche accusarti di aver “passato” la malattia ad altri perché non hai pensato che tuo padre – a Caldari - potesse avere il famigerato virus… che in quel momento stava a Lodi, a circa seicento chilometri di distanza. Tu lo dovevi prevedere che tuo padre – che non è mai uscito dal suo quartiere – potesse aver contratto il virus mortale.
Sì, inevitabilmente le accuse arrivano e ti lacerano il petto. Ma questa è un’altra storia.
Ora: da quando papà è entrato in ospedale, non ci sono mai state date buone notizie sulla sua condizione. Avrebbero voluto evitargli la terapia intensiva per una questione di età, ma non hanno potuto farne a meno perché i suoi polmoni peggioravano di giorno in giorno.
Intubato da circa la metà di marzo, attualmente solo un miracolo lo salverebbe.
Spesso ripenso a quel suo terzo giorno di febbre, quando ci era stato detto di non preoccuparci: «è solo un raffreddamento da tenere sotto controllo, una normale influenza». Non mi sento di colpevolizzare, non ne ho la forza, alla fine si era tutti impreparati di fronte a un’emergenza della quale non si era capita – secondo me - la portata (e riconosco che io, in prima persona, non l’avevo intuita), ma non posso fare a meno di pensare che un essere umano, papà, sta perdendo la vita...
Mia sorella e io, consumate dal senso di colpa (perché poi tu, col famoso “senno di poi”, fai mille congetture sul come avresti potuto agire tempestivamente), ci siamo date una sorta di attenuante: se non lo avessi portato al pronto soccorso, un giorno lo avremmo trovato senza vita, in casa, chiedendoci il perché (papà non soffriva di gravi patologie, e non avremmo mai potuto immaginare che un 38 di febbre l’avrebbe ucciso).
Certo, non è che adesso io non mi chieda ugualmente “perché”; non è che sia riuscita a realizzare perché mio padre, che fino a due giorni prima si occupava dell’orto, della casa – anche quella in ristrutturazione! -, della sua Fiat 600, del garage con gli oggetti antichi ordinatamente esposti, dell’aceto “gne la mamm viecchij di cent’ann” e tutto il resto, stava poi, nemmeno una settimana dopo, “grave” in un reparto d’ospedale.
Durante la mia stessa degenza in ospedale andavo via via realizzando che Maurizio e papà avevano incubato il virus più o meno nello stesso periodo, ossia verso la fine di febbraio, forse Maurizio con qualche giorno di anticipo su papà. «Per cui», mi dicevo «il primo contagio dev’essere partito durante la seconda metà del mese, forse negli ultimi dieci giorni».
Ma poteva Maurizio essere stato il primo a contrarlo, oppure era solo stato il primo a “cadere” a causa di qualcosa che lo rendeva più vulnerabile alla malattia? In realtà, in quanti si erano contagiati senza mostrare i sintomi? Qual era il legame con papà?
Quante ipotesi nella mia testa ma, come è facile intuire, non è semplice ricostruire la dinamica di un contagio; un’epidemia arriva, non la prevedi, soprattutto se “il portatore del virus” è uno dei tanti asintomatici di cui tanto si parla.
I molti messaggi che arrivavano dal paese, con aggiornamenti che mi restituivano l’immagine di una Caldari da cimitero di guerra, accompagnavano le mie teorie; ragionavo e valutavo, cercando un movente, il perché di tante morti, il perché di tanta sofferenza: troppe persone erano entrate nell’orbita del virus a seguito dei primi casi. Insostenibile.
Mi chiedevo come fosse partito il disastro che stava spezzando i legami (almeno quelli terreni), che ci stava portando via gli affetti nella solitudine più nera.
Ma la risposta non la trovi, puoi solo pensare a quelle persone che hanno accompagnato la tua crescita e che adesso non ci sono più; gente genuina che, come ci insegna San Francesco, “con amore ed umiltà costruisce il proprio sogno”, perché di questo è fatta la popolazione di un piccolo centro abitato: di lavoro e gioie semplici “quelle che alla fine sono le più grandi”. Gente di cuore … e forse questo è il segreto, il fulcro di una comunità: l’affetto che lega tutti, incondizionatamente.
E se si entra a far parte di questo piccolo grande cerchio, è difficile non esserne condizionati: si diventa “paesani”, si diventa “callaris” …
E in virtù del mio essere “callares” mi ostinavo al voler risalire alla miccia che ha acceso l’incendio; ma poi, discutendo e ragionando, ho spesso sentito dire che recuperare il primo caso del contagio è pressoché impossibile. Sì, sarà vero… io sembra non abbia più certezze a riguardo… so solo che il mio “puntiglio” è connesso al sentimento, all’attaccamento alle mie origini: quando è colpita la propria terra, se tu quella terra te la senti dentro, sei irrimediabilmente coinvolto.
Il tempo scorre, e gli eventi, catastrofici o lieti che siano, non arrestano il suo incedere.
Dopo tanta dannazione arriveranno tempi migliori e già Caldari inizia il suo recupero con il ritorno a casa dei “vincitori”: espressioni concrete della lotta contro la malattia, della vittoria sul Covid19, un nemico che – ora lo sappiamo davvero - si può anche annientare.
Ci vuole carattere e forza di volontà, ma uscirne si può. E quando se ne esce dopo lunghe settimane di battaglia, la personale vittoria ravviva la luce della speranza di coscienze che non si accostano più alla flebile fiamma di un fiammifero ma avvicinano un fuoco che divampa illuminando di una nuova grazia gli occhi di coloro i quali assistono alla storia che si scrive.
Verranno tempi migliori sì, e arriverà anche il giorno in cui avremo modo di ricordare i nostri cari, coloro che abbiamo perso dentro il girone infernale nel quale siamo caduti; e li ricorderemo così, ad uno ad uno, come si conviene.
Sono lieta per chi è tornato, prego per chi è andato; prego e spero ancora per mio padre, consapevole della strada che ha intrapreso; ma nonostante la parola della scienza, non riesco a fare a meno di sperare. E so che se “lu virùs” non l’avesse colpito, sarebbe – come diceva lui - vissuto cent’anni come la sua mamma (anzi, a rigor di logica, di più, perché lui «è lu fij»!), dal momento che, comunque vada a finire, ad oggi sono più di venti giorni che è sedato e intubato … e più di un mese è passato da quando ha avuto i primi sintomi. La forza non gli manca.
Ti voglio bene Caldari, e ti abbraccio forte… alla faccia di un virus che ci vuole distanti.
Francesca Radico
Da abruzzese a abruzzese, stamane ho avuto l'istinto di inviarle questo messaggio.
Oggi, 8 aprile, è passato un anno dalla mia pubblicazione - sulla pagina Facebook del paese - della lettera che trascrivo a fine e-mail.
Era giovedì santo e esattamente il giorno di Pasqua, il 12 aprile, mio padre sarebbe morto (ma a me piace pensare che in quel giorno non si possa che resuscitare), dopo circa quattro settimane intubato.
Erano i giorni della famigerata "prima ondata" e il virus si trovava per lo più in Lombardia; dalle nostre parti si sentiva poco o niente riguardo a ipotetici contagi, forse un paio di casi, ma che di certo non riguardavano il piccolissimo paese che di lì a poco sarebbe diventato la prima (e unica) zona rossa della provincia di Chieti.
Il tutto ebbe inizio il 5 marzo 2020 con la morte del "leggendario" proprietario dell'unico bar (un'attività di famiglia, avviata prima della seconda guerra) del paese, Maurizio, ma nessuno pensò al virus, piuttosto si ipotizzò un infarto. Un paio di giorni dopo, avuti i risultati del tampone voluto preventivamente dai familiari (Maurizio comunque aveva avuto febbre e gestiva un bar, per cui, dato che quotidianamente si sentivano notizie sul virus meglio sincerarsi) il buon Maurizio divenne la prima vittima abruzzese del coronavirus. Immediatamente fu il panico.
Da quel giorno iniziò un calvario e, da parte mia, sentii addosso tutto il significato della settimana santa, la sua essenza che, se con il terremoto de L'Aquila, non troppi anni prima, mi aveva dato molto su cui riflettere, adesso che il virus lo avevo dentro (e non a distanza di duecento chilometri come nel caso del terremoto) non riuscivo nemmeno a pensare; paura, ansia, malessere, un terribile senso di impotenza: queste sono alcune delle sensazioni che ricordo lucidamente... insieme a un soffocante senso di colpa (perché quelli che accusano non mancano mai).
Poche settimane dopo ci trovammo in ospedale (in camere/settori diversi) io, con flebo più o meno continue perché non riuscivo più a mangiare (e non so dire quanti chili abbia perso), il mio compagno con l'ossigeno e mio padre intubato.
Fortunatamente me la cavai con pochi giorni di ricovero (una settimana circa, il tempo di reidratarmi credo dacché la mia polmonite non peggiorò) ma, rientrata a casa (a Lanciano), ebbi tutto il tempo di vivere nella solitudine più totale (nessuno poteva venirmi a trovare perché uscii dall'ospedale ancora positiva e a quei tempi i tamponi erano meno veloci) "il martirio" toccato a papà, fino alla sua morte... anzi, al suo funerale, del quale ebbi testimonianza grazie ai pochi amici (per lo più affacciati ai balconi) che mi inviarono foto e video dal paese mentre il carro funebre lo portava al cimitero.
Caldari era diventata un cimitero di guerra ed ebbi modo di capire sulla mia pelle perché nonn' Alfredo, quando durante l'adolescenza gli chiedevo della sua esperienza in guerra, in alcuni punti si fermava e, distogliendo lo sguardo, mi diceva: "'scti còos è mejie ca tu nin li sié" ("queste cose è meglio che tu non le sappia").
Mi chiedevo che cosa quegli occhi lucidi avessero visto... ad oggi mi chiedo che cosa il suo cuore avesse "sentito" e se mai, in mezzo a quell'inferno, nello stesso momento in cui lo viveva, avesse avuto il tempo di "sentirlo"... ma il ricordo lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e col tempo forse avrebbe deciso di censurare le sensazioni peggiori che "a distanza" invece riusciva a oggettivare o, quantomeno, di non rivelarle a una nipote sedicenne... e forse sarà così anche per la generazione che ha vissuto il Covid-19, soprattutto per chi lo ha visto da vicino... da troppo vicino: rimarranno ricordi che a tratti toglieranno il respiro... e le parole.
Attualmente vivo con la consapevolezza che nonostante tutto siamo stati fortunati: poteva andare peggio, molto peggio...
Ho deciso di inviare la lettera che l'anno scorso scrissi nel giro forse di una settimana (durante i momenti della giornata in cui stavo meglio) perché da circa un anno sento quotidianamente parlare di "numeri" ma se mi fermo un istante a pensare, "scopro" che dietro a ognuno di quei numeri c'è un essere umano che se ne va, una vita, un progetto... c'è una storia: questa è quella di mio padre.
E mi auguro che un giorno ci sarà un'occasione per raccontare, un modo affinché coloro che hanno vissuto questo tipo di terrore possano lasciare la propria testimonianza alle generazioni future, così come i miei nonni hanno fatto con me.
Cordialmente,
Francesca Radico
LA LETTERA
Al mio paese. Con affetto.
Una storia.
Ciao Caldari.
Sono Francesca, la nipot di “Vincenz di Bonóm” e di “Alfred di Zulù”, la nipot di “lu Ddiégh” e di “Lisett”... nonché la fij di “Marij di Bonóm” e di “Duminicúcc’ di lu Ddiégh” ;)
Quello che è successo a Caldari ha dell’incredibile, io stessa ci sono dentro dall’inizio del mese di marzo; e tutt’ora, risultati alla mano, non ci posso credere.
Quando il nostro Maurizio è venuto a mancare, mio padre aveva già la febbre; dal giorno prima ci aveva detto (a me e mia sorella) di non stare troppo bene.
Giovedì 5 marzo, come tutti i giovedì, sono da lui.
La notte prima Maurizio ci lasciava, e la mattina in cui arrivo in paese, un’ombra si è già posata sui tetti, scivola sulle mura e investe gli abitanti. Si respira tristezza. Caldari è in lutto.
Salita in casa, mio padre era rosso in volto e con gli occhi lucidi (quelli tipici con cui mamma mi diagnosticava la febbre) e, come ogni anno nel periodo marzo-aprile, ho pensato: «Ecco qua, al solito si è beccato un malanno per quel suo vizio di uscire fuori senza giacca, dopo essere stato davanti al caminetto acceso». Non parlammo della sua febbre ma della dipartita di Maurizio.
Mia sorella e io, a cuor leggero, ci preparammo ai turni d’assistenza: per risalire la legna, comprare qualcosa da mangiare, prendere le medicine necessarie e quant’altro; insomma, tutto quello che un figlio farebbe per un genitore influenzato; e che in realtà, a cadenza stagionale facciamo perché papà puntualmente si becca qualcosa!
Intanto passano un paio di giorni e la febbre di mio padre – come da copione - da trentotto scende sotto i trentasette, grazie a due Tachipirine 1000. Il giorno in cui si sa della positività di Maurizio al coronavirus, papà nel primo mattino non ha febbre, però già a metà mattinata si affacciano i decimi.
Ma facciamo un passo indietro.
Per chi conosce mio padre, sa che il suo carattere non è il massimo: burbero, pignolo, amante delle sue idee, non va mai da nessuna parte, non gli piace uscire, non gli interessa avere relazioni sociali, insomma, un mix di “asocialità”! Ma a tratti sa anche essere simpatico e socievole, dipende da come gli gira e, appunto per il suo modo di “fare il buono e il cattivo tempo”, così come ha voglia, non poche volte io mi ci attacco! ! … però alla fine resta sempre mio padre, un padre che, sotto quella “corazza burbera”, ha un buon cuore.
Attenzione: su quel “non gli piace uscire” mi soffermerei.
Da quando è cominciata tutta questa storia del Covid19 ci hanno insegnato che il coronavirus è “un virus sociale”, te lo pigli se stai in mezzo alla gente, se viaggi, tant’è che nei primi casi sospetti la domanda era: «È stato all’estero recentemente»? «È rientrato dalla Cina»?
La Cina? ? ! Il massimo dell’uscita “fuori le mura” di papà è congelata al 1961, quando andò militare a Monza; a quei tempi forse sì che qualche sospetto di aver contratto il virus ce lo poteva avere, visti i luoghi italiani dai quali è cominciato il contagio.
Attualmente la vita di Duminicucc’ si svolgeva entro un raggio di 200 m intorno a casa: la posta, la farmacia, il negozio di alimentari a due passi; forse il punto più lontano da casa era l’orto (più o meno 500 m) e altra sua meta era la casa di nonna Luisa in piazza (negli ultimi tempi ci stava spesso per la ristrutturazione di cui era orgogliosamente contento, più di me che l’avrei abitata; era solito ripetere: «Aggiusctà ‘scta ches nin è bel sol pi nu ma pi Caglier! »; il senso era: sarà una casa che tornerà ad essere aperta e che contribuirà a far sì che Caldari viva!). L’ultimo suo appuntamento era con l’acqua frizzante, sempre in piazza: un paio di volte a settimana per riempire la bottiglia.
Papà non è un tipo da bar, non è un tipo da chiesa (luoghi canonici dei gruppi più numerosi), e l’affollamento più concentrato è quello che trova mmezz a Caglier per le due chiacchiere quotidiane. Poi se ne torna a casa davanti alla televisione e alle 7: 30 di sera sta a letto (a vidé Bonolis o Gerry Scotti e dopo lu telegiornal … se non si addormenta prima).
Questa è la sua “socialità”. Non c’è altro.
Nonostante la consapevolezza della sua “ristrettezza sociale”, non appena si è saputa la notizia della prima positività a Caldari, che ha portato al “primo caso di decesso in Abruzzo” (così mi sembra di aver letto), ho chiamato il 1500 (e tutta la tombolata di numeri che mi è stata fornita).
Era sabato 7 marzo, e papà aveva la febbre già da circa tre giorni (una febbre ambigua che andava e veniva, restando su pochi decimi).
Ai numeri utili è stato spiegato (da me al 1500, poi da mia sorella agli altri numeri - per altro lei stava fisicamente a Caldari, così anche papà parlò con gli addetti al servizio telefonico): «Chiamo da un paese nella provincia di Chieti, in Abruzzo, dove da poco è stato accertato un caso di morte per coronavirus. Mio padre, un uomo di 80 anni che nel 1998 ha avuto un’embolia polmonare, ha una febbre ambigua, debolezza, e qualche colpo di tosse».
Le domande dall’altro lato della cornetta furono: «Suo padre ha avuto contatti con l’uomo deceduto? Fa fatica a respirare? ».
Naturalmente le nostre risposte sono state negative: mio padre non aveva avuto contatti con l’uomo deceduto né tantomeno faceva fatica a respirare, ragioni per cui, secondo loro, non aveva niente di grave. Bisognava solo tenerlo sotto controllo, “in osservazione”, a casa.
Passano altri tre giorni. I decimi non desistono. Papà è debole. Non ha appetito.
Martedì 10 marzo invio un messaggio alla dottoressa che ha in cura papà e lei non ci pensa due volte; mi dice: «Domattina passa da me che ti faccio l’impegnativa per raggi al torace “urgenti”; con quella ti devono far passare al pronto soccorso. Mettiti la mascherina e vai a prendere tuo padre». I medici curanti, già a quella data, non potevano più fare visite a domicilio.
Il giorno dopo faccio esattamente quanto raccomandato, ma al momento in cui indosso la mascherina e la metto a mio padre (dicendogli: «Qualunque cosa accada oggi, tu questa non te la togliere» - lui già mi aveva detto: «Che ci ha fa’ gne quess? ? ») penso (incredula, perché tu non ci vuoi credere che tuo padre abbia potuto contrarre il coronavirus, anche perché non riesci a capire “come” se lo sia potuto prendere: a Caldari, davanti casa): «Se papà ha il coronavirus, credo proprio che questa mascherina oggi non mi salverà». C’ero stata a contatto – anche se “a distanza di sicurezza” (coronavirus o meno, io – notoriamente - ho paura di tutte le malattie) - per tutto il tempo, e da quando era cominciata la febbre era passata già una settimana. Con l’inquietudine nel cuore, accompagno papà al pronto soccorso di Ortona: in ogni caso, di certo non lo potevo lasciare a casa così conciato (non riusciva quasi più a mangiare ed era chiaramente debilitato).
Arrivo al pronto soccorso. Ci mandano direttamente ai raggi. Gli addetti allo sportello, quando vedono l’impegnativa e sentono “Caldari” mi ridanno il foglio con la prescrizione, si disinfettano le mani (coperte da guanti) e ci rimandano al pronto soccorso, evidentemente contrariati.
Il responsabile dell’accettazione al pronto soccorso, adesso, fa entrare papà. Una veloce visita e di nuovo ai raggi, ma questa volta scortati dall’infermiere.
Fanno entrare mio padre, io aspetto fuori. Sento le voci: un vociferare che diventa sempre più simile a una discussione che si fa via via più concitata; di nuovo esce il nome “Caldari”, e sinceramente inizio a agitarmi… più di quanto non fossi.
Sento dire a papà di spogliarsi ma la discussione fra addetti si fa sostenuta: lo fanno rivestire e uscire dalla stanza dei raggi. Papà cammina un po’ a fatica, si sta riallacciando la maglia e stiamo tornando verso il pronto soccorso mentre mi chiede se quello che gli dovevano fare gliel’hanno fatto; io lo guardo sorridente (solo con gli occhi perché avevamo le mascherine), sapevo bene che i raggi non gli erano stati fatti e che lui mi stava prendendo bonariamente in giro, ma tra me e me, lentamente – e con paura - si faceva strada il presentimento che qualcosa non andava, soprattutto se provenivi da Caldari; l’equazione mi pareva semplice: “sintomi” + “Caldari” ꞊ “coronavirus”; ma il tuo cervello non vuole saperne, non vuole assolutamente prendere in considerazione che tuo padre si sia avvicinato così tanto al virus…
Guardo papà (ed era difficile mantenere il sorriso) e gli dico: «Pa’, intanto torniamo al pronto soccorso, tu n’dì preoccupà».
Siamo di nuovo al pronto soccorso. Papà entra, io aspetto fuori. Ore. Da sola.
A un certo punto, dopo la lunga attesa, un medico tanto alla buona, senza protezioni, mi chiama e mi dice il suo punto di vista: «Ho visitato papà e, data l’età, non mi sembra che abbia qualcosa di grave. Adesso non ha la febbre; ho auscultato il torace e sento un leggero creptìo ma, data l’età, non c’è da preoccuparsi. Lo terremmo qui in osservazione ma lui non vuole restare, quindi può mettere la firma e lo osserverete a casa. Intanto lo teniamo ancora un po’ qua. Impegnare un’ambulanza per fargli fare i raggi a Chieti mi sembra esagerato». Praticamente – avevo intuito – a Ortona non concedevano più l’accesso ai raggi ai “casi sospetti”, andavano tutti a Chieti … ma se papà era “sospetto” perché non poteva andare a Chieti?
Torno a sedermi in sala d’attesa. E penso.
La dottoressa mi aveva mandata lì per dei raggi al torace. Il medico di turno riteneva che non fossero necessari, ma mi aveva anche riferito di aver sentito un “leggero creptìo” nel torace.
Gli avevo detto che papà era scampato a un’embolia polmonare negli anni ’90 ma lui mi aveva rassicurata dicendomi che l’embolia non faceva testo, non era un problema. Tuttavia, da ignorante, io ero preoccupata: “il creptìo” nei polmoni c’era. Aspetto. Aspetto. Aspetto.
Sono le 14: 30.
All’improvviso la porta che divide il pronto soccorso dalla sala d’attesa si spalanca e un nuovo dottore (questa volta con guanti e mascherina) protesta a muso duro: «Ho un uomo dentro che non dovrebbe stare qui; è di Caldari e mi riferisce sintomi per i quali va seguita una procedura e non doveva stare qui! ! Chi è il suo medico curante? ? Poi mi sentirà! ! ».
Impressionata, davvero impressionata (fino a poco prima mio padre non aveva niente e se ne poteva tornare a casa) gli dico che la settimana prima si era provato a “seguire la procedura” e che proprio il medico curante mi consigliò di chiamare il 1500, il 118 e tutto il resto ma, per tutti i numeri contattati, papà non aveva niente di grave.
Alla mia risposta ribatte: «La settimana scorsa era diverso, adesso a Caldari sono successe “delle cose”. Ora chiamo il 118 e faccio venire a prendere suo padre».
A quel punto non volevo stare più sola. Era stata una mattinata logorante.
Erano ore che aspettavo, con i dubbi nel cervello e con la paura che saliva…
Chiamo mia sorella (che nel frattempo, dati gli ottimistici responsi del mattino, era andata a Caldari a preparare il pranzo), le dico le ultime “novità” e la prego di raggiungermi; avremmo seguito in macchina l’ambulanza del 118 fino a Chieti.
Arriva mia sorella – con la sua mascherina. Due chiacchiere. Di nuovo attesa.
Alle 15: 30 ecco l’ambulanza.
L’addetta al prendere in consegna l’ipotetico infetto, scende dal mezzo e entra nel pronto soccorso. Dopo pochi minuti escono: lei, davanti, nella sua tuta spaziale, fa strada a papà che la segue col suo passetto lento e con la mascherina ben posizionata sul volto.
Mentre segue “l’astronauta”, lui si volta e ci vede che lo osserviamo passare; si rivolge a mia sorella, fa per venire verso di lei e dice: «Eh! Pur tu sctì ekk? ! » … un momento di tenerezza infinita. Ma la ragazza che lo scortava, per quanto dai suoi occhi mi sembrasse dolce e paziente nell’assistere pure lei a quella scena - ferma sulla porta d’ingresso - probabilmente aveva fretta, per cui dico a papà: «Va’ pà che fors l’ambulanz n’zi po firmà tanta temp». Lui va.
Si siede al suo posto e la signorina gli allaccia la cintura di sicurezza.
Prendo istruzioni per il pronto soccorso di Chieti e, ancora sicura – benché impensierita - di riportare presto papà a casa, con mia sorella andiamo a prendere la macchina. Mai avrei immaginato che da allora, noi, papà non lo avremmo più visto. È l’11 marzo 2020. Mercoledì.
Il pronto soccorso di Chieti è vuoto, nessuno in sala d’attesa, e si può entrare solo uno alla volta.
Il ragazzo dietro al vetro mi dice di tornare a casa: la cosa sarebbe andata per le lunghe e non era il caso di restare nei paraggi dato il grande numero di contagiati che quotidianamente passa di lì.
Esco dall’edificio e riferisco a mia sorella. Siamo indecise, disorientate, non sappiamo che fare.
Aspettiamo un po’, con le nostre mascherine, nel parcheggio del pronto soccorso.
La nostra speranza è la fiammella di un fiammifero acceso nel buio… ma poi, alla fine, non lo sai più nemmeno tu che cosa stai sperando; sei già stanco, psicologicamente stanco, e non sai che quello è solo l’inizio, l’inizio di momenti terribili di attesa, di ansia, terrore, immobilità… di solitudine; l’essenza dello “sconosciuto”, della paura che fa quello che non si conosce, è concentrata tutta in un virus che ti penetra nella carne e nell’anima.
La sera stessa, la prima telefonata dal medico dell’infettivologia di Chieti: papà è grave. Polmonite bilaterale. Il dottore è certo che si tratti di coronavirus ma nel frattempo che si aspetta il tampone, papà è messo in una stanza, isolato. Penso: «così solo, isolato, costretto a letto, abituato com’è a fare quello che vuole - quando vuole - impazzirà».
Nel giro di quattro giorni la situazione precipita rovinosamente: papà alterna momenti di lucidità a momenti di perdita di coscienza, è preda di stadi soporiferi innescati dalla mancanza d’ossigeno; non si alimenta, ha sempre più bisogno d’ossigeno.
Sono momenti di dolore assoluto, di disperazione, di pianto, di perdizione e impotenza; non puoi fare niente, puoi solo aspettare anzi, “devi” aspettare. Una situazione inumana.
Da esseri umani quali siamo, non siamo predisposti alla “non azione”, noi “dobbiamo” agire, dobbiamo fare, siamo abituati a cercare la soluzione per il problema, ma in questo caso “il problema” è che non puoi agire; devi lasciare che il tempo faccia il suo corso, soprattutto non puoi avere fretta. “Pazienza” è la parola d’ordine.
Quando si era trattato di mia mamma, la sua malattia era stata certo dura da affrontare, ma lo si era fatto insieme: la si accompagnava in ospedale, la si andava a trovare quando era ricoverata, la si accompagnava per la riabilitazione; ci si poteva chiacchierare e litigare, la si poteva baciare, accarezzare, abbracciare… e Dio solo sa quanto siano importanti un abbraccio, una mano tenuta stretta, un bacio, una carezza: un solo sorriso può fare miracoli per un familiare ammalato… e per chi l’accudisce.
Nel caso di papà invece tutto si stava svolgendo con una velocità micidiale, spiazzante, e la cosa peggiore era (ed è) che non lo si poteva assistere, anzi, bisognava stargli lontano.
Riflettevo (e tempo per riflettere se ne ha davvero tanto, troppo): la situazione, nel caso del malato di Covid19, è questa: lui (il malato) è solo, tu sei solo. Ti fa compagnia il suo pensiero che costantemente ti gira nella testa, e la consapevolezza che, qualunque cosa accada, tu non puoi fare niente. Una percezione disarmante.
La personale condizione psicologica di tormento, angoscia e oppressione, si aggrava poi quando inizi a prendere confidenza col fatto che “probabilmente” tuo padre ha il virus e che “probabilmente” tu lo hai già dentro, e per questo devi stare lontano dal resto del mondo.
Ma tu non sai come fare, non sei preparato, o meglio, puoi adattarti a non uscire più di casa, a vivere isolato, ma come puoi isolarti e stare lontano da chi condivide la casa con te?
Come si fa? Come ci si organizza?
Privo di qualunque possibilità di difesa e senza soluzioni, devi trovare risposte ma non ne hai voglia, non hai voglia di “sistemare gli ambienti”, ma devi. Una sorta di “violenza su violenza” perché tu vuoi solo pensare a tuo padre, alla tua condizione di miseria morale e perdita di volontà.
È il 15 marzo. Domenica. Arriva la risposta del tampone: Domenico Radico positivo al Covid19.
Sai che in quell’attimo, anzi, a partire da quell’attimo, il tuo mondo fatto di fragili sicurezze costruite a fatica, è miseramente destinato a crollare; lo strazio è agghiacciante. Sai che non ti salverai, lo hai sentito per mesi ai notiziari, lo hai visto in tv: scene di una atrocità spaventosa ti hanno insegnato che “devi aver paura”, ti hanno parlato di morte e ti hanno inculcato che non c’è via di scampo. Questo è stato il messaggio arrivato ai nostri (o almeno al mio) cervelli dal tamburo battente mediatico.
Non riesci nemmeno a prendere in considerazione che, d’altro canto, se pur se ne parli poco, ci sono state delle guarigioni, tante… ma no, tu non riesci a pensarci e hai l’impressione di andare al patibolo (con la mia indole “tendente” all’ipocondria, la sensazione non poteva essere diversa).
Ma un impianto sentimentale già fatto a pezzi e a terra, non può più crollare; così, istintivamente, quel carico di amarezza, demoralizzazione e distruzione morale, paradossalmente ti sorregge quando stai per affrontare il peggio (se mai ci fosse poi una vera possibilità di distinzione del “peggio” in questa storia): sei libero di inorridire più di quanto tu non abbia già fatto, dal momento che hai i primi decimi di febbre e sai che anche tu svilupperai la malattia.
Sei distrutto da quello “che è già stato” e non fai in tempo ad aver paura per te stesso che già pensi di aver infettato chi ti è più vicino.
È più o meno scontato: quotidianamente condividiamo l’esistenza con le nostre famiglie (quelle d’origine e/o quelle che ci si costruisce poi) ; certo gli amici ci sono, ma giornalmente, “a stretto giro”, i punti di riferimento ci arrivano da un padre, una madre, un fratello, una sorella, un compagno, dei figli, insomma, il nostro mondo ruota attorno a una famiglia.
Bene, la ferocia del virus qui è spietata: la tua prima, più grande paura è quella di aver contagiato la/le persone alle quali tieni di più.
E questo non è niente se, nello stesso momento in cui stai soffrendo per un pensiero talmente crudele, pensi che potrebbero anche accusarti di aver “passato” la malattia ad altri perché non hai pensato che tuo padre – a Caldari - potesse avere il famigerato virus… che in quel momento stava a Lodi, a circa seicento chilometri di distanza. Tu lo dovevi prevedere che tuo padre – che non è mai uscito dal suo quartiere – potesse aver contratto il virus mortale.
Sì, inevitabilmente le accuse arrivano e ti lacerano il petto. Ma questa è un’altra storia.
Ora: da quando papà è entrato in ospedale, non ci sono mai state date buone notizie sulla sua condizione. Avrebbero voluto evitargli la terapia intensiva per una questione di età, ma non hanno potuto farne a meno perché i suoi polmoni peggioravano di giorno in giorno.
Intubato da circa la metà di marzo, attualmente solo un miracolo lo salverebbe.
Spesso ripenso a quel suo terzo giorno di febbre, quando ci era stato detto di non preoccuparci: «è solo un raffreddamento da tenere sotto controllo, una normale influenza». Non mi sento di colpevolizzare, non ne ho la forza, alla fine si era tutti impreparati di fronte a un’emergenza della quale non si era capita – secondo me - la portata (e riconosco che io, in prima persona, non l’avevo intuita), ma non posso fare a meno di pensare che un essere umano, papà, sta perdendo la vita...
Mia sorella e io, consumate dal senso di colpa (perché poi tu, col famoso “senno di poi”, fai mille congetture sul come avresti potuto agire tempestivamente), ci siamo date una sorta di attenuante: se non lo avessi portato al pronto soccorso, un giorno lo avremmo trovato senza vita, in casa, chiedendoci il perché (papà non soffriva di gravi patologie, e non avremmo mai potuto immaginare che un 38 di febbre l’avrebbe ucciso).
Certo, non è che adesso io non mi chieda ugualmente “perché”; non è che sia riuscita a realizzare perché mio padre, che fino a due giorni prima si occupava dell’orto, della casa – anche quella in ristrutturazione! -, della sua Fiat 600, del garage con gli oggetti antichi ordinatamente esposti, dell’aceto “gne la mamm viecchij di cent’ann” e tutto il resto, stava poi, nemmeno una settimana dopo, “grave” in un reparto d’ospedale.
Durante la mia stessa degenza in ospedale andavo via via realizzando che Maurizio e papà avevano incubato il virus più o meno nello stesso periodo, ossia verso la fine di febbraio, forse Maurizio con qualche giorno di anticipo su papà. «Per cui», mi dicevo «il primo contagio dev’essere partito durante la seconda metà del mese, forse negli ultimi dieci giorni».
Ma poteva Maurizio essere stato il primo a contrarlo, oppure era solo stato il primo a “cadere” a causa di qualcosa che lo rendeva più vulnerabile alla malattia? In realtà, in quanti si erano contagiati senza mostrare i sintomi? Qual era il legame con papà?
Quante ipotesi nella mia testa ma, come è facile intuire, non è semplice ricostruire la dinamica di un contagio; un’epidemia arriva, non la prevedi, soprattutto se “il portatore del virus” è uno dei tanti asintomatici di cui tanto si parla.
I molti messaggi che arrivavano dal paese, con aggiornamenti che mi restituivano l’immagine di una Caldari da cimitero di guerra, accompagnavano le mie teorie; ragionavo e valutavo, cercando un movente, il perché di tante morti, il perché di tanta sofferenza: troppe persone erano entrate nell’orbita del virus a seguito dei primi casi. Insostenibile.
Mi chiedevo come fosse partito il disastro che stava spezzando i legami (almeno quelli terreni), che ci stava portando via gli affetti nella solitudine più nera.
Ma la risposta non la trovi, puoi solo pensare a quelle persone che hanno accompagnato la tua crescita e che adesso non ci sono più; gente genuina che, come ci insegna San Francesco, “con amore ed umiltà costruisce il proprio sogno”, perché di questo è fatta la popolazione di un piccolo centro abitato: di lavoro e gioie semplici “quelle che alla fine sono le più grandi”. Gente di cuore … e forse questo è il segreto, il fulcro di una comunità: l’affetto che lega tutti, incondizionatamente.
E se si entra a far parte di questo piccolo grande cerchio, è difficile non esserne condizionati: si diventa “paesani”, si diventa “callaris” …
E in virtù del mio essere “callares” mi ostinavo al voler risalire alla miccia che ha acceso l’incendio; ma poi, discutendo e ragionando, ho spesso sentito dire che recuperare il primo caso del contagio è pressoché impossibile. Sì, sarà vero… io sembra non abbia più certezze a riguardo… so solo che il mio “puntiglio” è connesso al sentimento, all’attaccamento alle mie origini: quando è colpita la propria terra, se tu quella terra te la senti dentro, sei irrimediabilmente coinvolto.
Il tempo scorre, e gli eventi, catastrofici o lieti che siano, non arrestano il suo incedere.
Dopo tanta dannazione arriveranno tempi migliori e già Caldari inizia il suo recupero con il ritorno a casa dei “vincitori”: espressioni concrete della lotta contro la malattia, della vittoria sul Covid19, un nemico che – ora lo sappiamo davvero - si può anche annientare.
Ci vuole carattere e forza di volontà, ma uscirne si può. E quando se ne esce dopo lunghe settimane di battaglia, la personale vittoria ravviva la luce della speranza di coscienze che non si accostano più alla flebile fiamma di un fiammifero ma avvicinano un fuoco che divampa illuminando di una nuova grazia gli occhi di coloro i quali assistono alla storia che si scrive.
Verranno tempi migliori sì, e arriverà anche il giorno in cui avremo modo di ricordare i nostri cari, coloro che abbiamo perso dentro il girone infernale nel quale siamo caduti; e li ricorderemo così, ad uno ad uno, come si conviene.
Sono lieta per chi è tornato, prego per chi è andato; prego e spero ancora per mio padre, consapevole della strada che ha intrapreso; ma nonostante la parola della scienza, non riesco a fare a meno di sperare. E so che se “lu virùs” non l’avesse colpito, sarebbe – come diceva lui - vissuto cent’anni come la sua mamma (anzi, a rigor di logica, di più, perché lui «è lu fij»!), dal momento che, comunque vada a finire, ad oggi sono più di venti giorni che è sedato e intubato … e più di un mese è passato da quando ha avuto i primi sintomi. La forza non gli manca.
Ti voglio bene Caldari, e ti abbraccio forte… alla faccia di un virus che ci vuole distanti.
Francesca Radico
Da: Francesca Radico
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