Io resto: il covid-19 vissuto dall'interno
Messaggio per Enrico Mentana
Lunedì 20 settembre 2021 09:36:42
Egr. Dr. Mentana,
mi chiamo Simona Bulla e Le scrivo da un piccolo paese sperduto nella bassa bresciana, Borgo San Giacomo, uno tra i più colpiti dalla pandemia come molti altri luoghi bresciani e bergamaschi.
Mi rivolgo a Lei Dottore poiché, al di la della stima profonda che ho nel Suo lavoro, è probabilmente una delle persone più trasparenti per quanto concerne la diffusione delle notizie per come sono, non edulcorate da politicismi e personalismi spesso inutili e dannosi.
Per farla breve, nel febbraio del 2020 mio fratello (gravemente disabile) ha contratto il COVID-19, ed accompagnato dalla nostra mamma è stato ricoverato all’ospedale civile di Brescia, al terzo piano nel reparto infettivi.
La presenza di mia mare era indispensabile poiché l’ospedale non aveva risorse umane specializzate da dedicare a Luigi ventiquattro ore al giorno.
Io da casa, con mio marito e mio figlio, seguivo il succedersi degli eventi ed il mare di informazione e disinformazione che filtrava dal media finché un giorno chiamando mia madre l’ho sentita particolarmente stanca e provata.
Premetto che mia madre era una donna di settantaquattro anni in perfetta salute e molto forte anche dal punto di vista caratteriale, tant’è che vedova a 47 anni ha saputo portare avanti una situazione familiare non facile nemmeno in situazioni cosi dette “normali”.
Ho contattato i medici del civile riferendo l’impressione che mia madre non stesse bene, e dopo la loro conferma – infrangendo ogni protocollo – ho lasciato la mia famiglia e mi sono precipitata al reparto infettivi per assisterli.
Mia madre aveva celato il COVID ai medici per paura di essere allontanata da mio fratello e ciò le è stato fatale, la sua età non le consentiva la terapia intensiva (riservata ai più giovani che avevano forse qualche speranza in più di poterne uscire vivi) e l’unico passo caritatevole riservatole è stata la morfina.
Sono rimasta con Luigi per tre lunghe settimane, nessuno dei medici avrebbe scommesso un centesimo sulla sua guarigione, ma la sua tenacia unita alla mia hanno fatto in modo che Luigi potesse uscire da quell’inferno. Nel frattempo avevamo perso la mamma, una zia ed uno zio nell’arco di tre giorni.
Nel periodo in cui ho vissuto in ospedale, ho avuto modo di aiutare, nel mio piccolo (sono solo un’impiegata amministrativa) anche chi è stato ricoverato nella stanza con mio fratello: somministravo i pasti, aiutavo a rifare i letti, prendevo temperature e saturazione, mi davo da fare e la notte riposavo su una sedia accanto alla porta per tenere sotto controllo la situazione.
Non ringrazierò mai abbastanza l’intero staff degli infettivi che in quel periodo mi ha adottata e consolata quando con il cuore lacerato dovevo sorridere per dar forza a Luigi, lontana da mio marito e mio figlio sperando di non ammalarmi, sarebbe stata la fine.
Ne sono uscita completamente indenne, nonostante le docce senza riscaldamento ed il cibo che faticavo ad ingurgitare, non ho neppure sfiorato il COVID-19.
Il giorno in cui siamo stati dimessi, l’intero personale ha voluto salutarci e mostrarci affetto.
Nel frattempo, un giovane regista MICHELE AIELLO, aveva preso contatto con i vertici dell’ospedale civile al fine di poter girare un docufilm che mostrasse ciò che era accaduto e che ancora stava accadendo dentro quelle mura, e così è stato.
Giovedì 16 settembre il film dal titolo IO RESTO è stato presentato alla presenza delle autorità cittadine e dell’spedale a Brescia, in quell’occasione sono stata invitata ed ho assistito alla proiezione.
Mi sono resa conto che questo film non può e non deve rimanere un evento di nicchia, ma è dovere morale che venga diffuso il più possibile: tutti devono sapere.
Ognuno di noi deve capire davvero cos’è successo all’interno di quelle mura, per avere una conoscenza vera al di là di quanto detto e riportato.
Le sarò grata se potrà vedere il docufilm e parlarne per amplificarne la diffusione.
Grazie per la Sua attenzione e buona giornata
Simona Bulla
Cell. 339-------
-------
mi chiamo Simona Bulla e Le scrivo da un piccolo paese sperduto nella bassa bresciana, Borgo San Giacomo, uno tra i più colpiti dalla pandemia come molti altri luoghi bresciani e bergamaschi.
Mi rivolgo a Lei Dottore poiché, al di la della stima profonda che ho nel Suo lavoro, è probabilmente una delle persone più trasparenti per quanto concerne la diffusione delle notizie per come sono, non edulcorate da politicismi e personalismi spesso inutili e dannosi.
Per farla breve, nel febbraio del 2020 mio fratello (gravemente disabile) ha contratto il COVID-19, ed accompagnato dalla nostra mamma è stato ricoverato all’ospedale civile di Brescia, al terzo piano nel reparto infettivi.
La presenza di mia mare era indispensabile poiché l’ospedale non aveva risorse umane specializzate da dedicare a Luigi ventiquattro ore al giorno.
Io da casa, con mio marito e mio figlio, seguivo il succedersi degli eventi ed il mare di informazione e disinformazione che filtrava dal media finché un giorno chiamando mia madre l’ho sentita particolarmente stanca e provata.
Premetto che mia madre era una donna di settantaquattro anni in perfetta salute e molto forte anche dal punto di vista caratteriale, tant’è che vedova a 47 anni ha saputo portare avanti una situazione familiare non facile nemmeno in situazioni cosi dette “normali”.
Ho contattato i medici del civile riferendo l’impressione che mia madre non stesse bene, e dopo la loro conferma – infrangendo ogni protocollo – ho lasciato la mia famiglia e mi sono precipitata al reparto infettivi per assisterli.
Mia madre aveva celato il COVID ai medici per paura di essere allontanata da mio fratello e ciò le è stato fatale, la sua età non le consentiva la terapia intensiva (riservata ai più giovani che avevano forse qualche speranza in più di poterne uscire vivi) e l’unico passo caritatevole riservatole è stata la morfina.
Sono rimasta con Luigi per tre lunghe settimane, nessuno dei medici avrebbe scommesso un centesimo sulla sua guarigione, ma la sua tenacia unita alla mia hanno fatto in modo che Luigi potesse uscire da quell’inferno. Nel frattempo avevamo perso la mamma, una zia ed uno zio nell’arco di tre giorni.
Nel periodo in cui ho vissuto in ospedale, ho avuto modo di aiutare, nel mio piccolo (sono solo un’impiegata amministrativa) anche chi è stato ricoverato nella stanza con mio fratello: somministravo i pasti, aiutavo a rifare i letti, prendevo temperature e saturazione, mi davo da fare e la notte riposavo su una sedia accanto alla porta per tenere sotto controllo la situazione.
Non ringrazierò mai abbastanza l’intero staff degli infettivi che in quel periodo mi ha adottata e consolata quando con il cuore lacerato dovevo sorridere per dar forza a Luigi, lontana da mio marito e mio figlio sperando di non ammalarmi, sarebbe stata la fine.
Ne sono uscita completamente indenne, nonostante le docce senza riscaldamento ed il cibo che faticavo ad ingurgitare, non ho neppure sfiorato il COVID-19.
Il giorno in cui siamo stati dimessi, l’intero personale ha voluto salutarci e mostrarci affetto.
Nel frattempo, un giovane regista MICHELE AIELLO, aveva preso contatto con i vertici dell’ospedale civile al fine di poter girare un docufilm che mostrasse ciò che era accaduto e che ancora stava accadendo dentro quelle mura, e così è stato.
Giovedì 16 settembre il film dal titolo IO RESTO è stato presentato alla presenza delle autorità cittadine e dell’spedale a Brescia, in quell’occasione sono stata invitata ed ho assistito alla proiezione.
Mi sono resa conto che questo film non può e non deve rimanere un evento di nicchia, ma è dovere morale che venga diffuso il più possibile: tutti devono sapere.
Ognuno di noi deve capire davvero cos’è successo all’interno di quelle mura, per avere una conoscenza vera al di là di quanto detto e riportato.
Le sarò grata se potrà vedere il docufilm e parlarne per amplificarne la diffusione.
Grazie per la Sua attenzione e buona giornata
Simona Bulla
Cell. 339-------
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Da: Simona Bulla
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