L'esame di stato e la scuola che verrà
Messaggio per Corrado Augias
Sabato 26 giugno 2021 11:28:23
Mi chiamo Ilaria Rizzini, e da venticinque anni - di cui gli ultimi venti presso il Liceo classico “Ugo Foscolo” di Pavia - sono docente di Materie letterarie, Latino e Greco. Scrivo quanto segue, però, non come rappresentante di uno specifico indirizzo di studi, quello classico, né come membro di uno specifico corpo, quello docente, ma come persona sinceramente preoccupata per la china da anni imboccata dalla scuola italiana (e quindi dalla società che la esprime e incorpora), e a cui la pandemia sembra avere impresso una forte accelerazione.
Ciò che mi ha spinto a rompere gli indugi (dopo anni di malumori covati nei corridoi e nei gruppi più o meno ristretti di colleghi e amici, di ministro in ministro, di riforma in riforma) sono state le recenti dichiarazioni del Professor Patrizio Bianchi circa la possibilità di mettere a regime l’attuale formula dell’Esame di Stato, che non prevede prove scritte e si incentra sulla discussione di un elaborato prodotto dal candidato e sulla progettazione, da parte sua, di un percorso multidisciplinare a partire da “materiali” che la commissione gli sottopone.
Tale soluzione era stata pensata in una situazione di emergenza - correva il disgraziato anno scolastico 2019/2020, e tutti noi muovevamo i primi, incerti passi nel mondo della didattica a distanza - e presentata proprio come la risposta urgente e temporanea a una situazione imprevista e imprevedibile. Urgente, appunto, e temporanea, come tutto ciò che viene abborracciato per tamponare una falla, in attesa di tempi migliori e di soluzioni più meditate ed efficaci. Mi preme sottolineare che le dichiarazioni del Ministro hanno rappresentato per me la ben nota goccia che fa traboccare un vaso già colmo: voglio dire che, con questa mia, non intendo intraprendere una crociata in difesa dell’Esame di Stato in sé, né delle prove scritte in sé, ma ragionare su ciò che la definitiva abolizione di esse sottenderebbe e implicherebbe nell’ottica più generale della deriva e dello scadimento di qualità del sistema scolastico nazionale.
Il Ministro ha infatti sostenuto che produrre un elaborato in lingua italiana (usare il termine “tema” fa incorrere ormai in peccato mortale, ma mi piace ricordare l’etimo della parola: deverbativo dal greco τιθέναι, “porre”, il sostantivo denota semplicemente un argomento posto all’attenzione di qualcuno chiamato a svilupparlo) sulla base di una traccia tra le varie proposte, e tradurre e commentare un brano dal Greco o dal Latino, o svolgere un elaborato di Matematica, o risolvere un problema di Economia aziendale, o di Estimo, o di Progettazione, o di qualsivoglia disciplina tradizionalmente oggetto della cosiddetta seconda prova… sia qualcosa che a lui ricorda tanto “un esame lotteria”, a fronte della meditata messa a punto di un elaborato il cui argomento viene assegnato al candidato un mese prima della data fissata per la consegna.
Tralascio il fatto che, dato che le tracce per la Prima e la Seconda prova erano stilate da un’apposita Commissione ministeriale, esse stesse avrebbero dovuto essere frutto di meditazione ragionata, e non certo di improvvisazione casuale; spiace quindi apprendere che anni e anni di esami di Stato (ex esami di Maturità, perché, si sa, cambiare le etichette è più semplice che innovare i contenuti, et nomina [non] sunt consequentia rerum) siano stati condotti all’insegna del caso, e non del tentativo di calibrare accurati strumenti di misurazione delle conoscenze, delle capacità e, da ultimo, delle competenze dei candidati.
Tralascio altresì il fatto che, come io stessa ho avuto modo di constatare, da quando esiste l’elaborato “argomentato e meditato”, sia esso di Greco o di Pedagogia, esiste anche un fiorente mercato di elaborati svolti da qualcuno che non è il candidato, ma di cui costui si attribuisce la paternità. Tuttavia, non è questa la sede per polemizzare su simili “quisquilie”. Del resto, nel corso di questo secondo, infelice anno di DaD mi è stato detto più volte che infuriarmi perché gli studenti copiavano durante le verifiche a distanza era stupido e anche un po’ infantile, dato che la pratica della copiatura appartiene fisiologicamente alla scuola e al “gioco delle parti” studente/docente, a maggior ragione in un periodo in cui i ragazzi pativano le conseguenze psicologiche del confinamento e della ridotta socialità. Benché mi sia sforzata, ammetto i miei limiti: ancora adesso non sono riuscita a cogliere il rapporto di causa-effetto tra la depressione indotta dalla pandemia e l’incremento delle copiature; lungi dall’avermi resa più indulgente, tutto ciò mi ha invece permesso di capire che l’Educazione civica, da poco assurta ai fasti di materia curricolare, deve essere anch’essa praticata a livello di pura speculazione, perché richiederne l’applicazione ai comportamenti quotidiani è ormai mera espressione di passatismo: come sempre, l’importante è saperlo.
Ma, appunto, lasciamo perdere questi risvolti di piccolo cabotaggio. Torniamo ai massimi sistemi: il Ministro sostiene che chiedere a uno studente che si accinge a chiudere un quinquennio di scuola superiore e, spesso, a iscriversi a una facoltà universitaria, di esprimere il proprio pensiero in lingua italiana su una traccia da lui scelta, e dimostrare di avere acquisito le competenze base del proprio corso di studi, sia equiparabile a una “lotteria”. Quindi, pensare, e poi esprimere il proprio pensiero sarebbero operazioni affidate al capriccio della sorte, come l’estrazione del biglietto vincente alla pesca dell’oratorio. Quindi, affrontare un problema applicando metodi e strumenti acquisiti, e scegliendo tra essi i più adatti allo scopo, risponderebbe al principio del caso, come risultare il vincitore del primo premio di una riffa di quartiere. Allora io mi chiedo: se tutto è così indegnamente casuale, perché si dovrebbe continuare a sottoporre gli studenti a verifiche scritte e orali di cui ignorino in anticipo i quesiti? Perché dare loro un brano da tradurre a prima vista? Perché non inviare loro il testo di ogni prova in anticipo, in maniera che la “lotteria” si trasformi in “articolazione di un pensiero complesso”, con tutto il tempo per compiere quest’operazione a casa propria? Siffatto modello sarà poi da esportare anche in sede universitaria, dove a tutt’oggi gli esami sono mere “lotterie”, dato che non mi risulta che ai candidati vengano forniti in anticipo i quesiti a cui rispondere e le tracce da sviluppare (o, almeno, che ciò, qualora accada, sia ritenuto lecito).
L’attuale Esame ha poi formalmente abolito le domande: al candidato non si può chiedere nulla; con lui si deve “discutere”; non lo si può “interrogare”: con lui si “interloquisce”. Per evitare di scadere nel nozionismo, il cuore pulsante del colloquio è costituito appunto da un excursus pluridisciplinare che il candidato costruisce estemporaneamente sulla base di “materiali” forniti dalla Commissione. Così egli potrà mostrare davvero quali competenze abbia acquisito nel corso del quinquennio di scuola superiore.
Tralascio il fatto che “estemporaneamente” è una mera ipotesi di lavoro, o, meglio, talvolta solo una pia illusione. Ho potuto personalmente constatare che parecchie commissioni abbinano i suddetti “materiali” ai candidati in anticipo sulla prova, e gli abbinamenti vengono comunicati agli stessi da solerti commissari che vogliono il bene dei loro studenti più di quanto, evidentemente, io e altri come me vogliamo quello dei nostri: del resto, italico more, “fatta la legge trovato l’inganno”, perché sì, la normativa impone che tale procedura venga operata ogni mattina, immediatamente prima che i candidati varchino la soglia dell’aula dove si svolgerà il colloquio, ma spesso ciò non accade (e vale lo stesso discorso a proposito del testo noto di letteratura italiana la cui analisi costituisce la seconda parte del colloquio: ho visto candidati che cominciavano a parlarne prima ancora che il docente proiettasse il passo sulla Lim).
Tralascio altresì il fatto che l’individuazione dei “materiali” è un’operazione dagli esiti davvero “a lotteria”, dato che ho personalmente constatato che ogni commissione interpreta la cosa a modo suo, e davvero “commissione che vai, materiali che trovi” (fotografie di luoghi, di opere d’arte, di personaggi storici, di perfetti sconosciuti, citazioni estrapolate da qualsivoglia contesto, formule matematiche, figure geometriche…).
Ma non posso tralasciare il fatto che, sottoposto al candidato il suddetto materiale, a costui sia richiesto di creare collegamenti pluridisciplinari che, nella migliore delle ipotesi, funzionano per due/tre materie, per poi aggrapparsi all’esile omografia (Resistenza: fenomeno storico, ma anche parte del circuito elettrico…) o alla mera analogia (il simbolo dell’infinito: da Leopardi alla geografia astronomica il passo è breve). Quindi, la capacità di esprimersi e di ragionare, che un elaborato di Italiano o un compito di Matematica non possono sondare, può veramente emergere da labili collegamenti spesso davvero mortificanti (per chi è costretto a produrli, oltre che per chi è tenuto ad ascoltarli) ? Tale procedura, detto per inciso, favorisce i candidati più disinvolti, non necessariamente quelli che hanno studiato di più o con più fatica, e che magari hanno penato per costruirsi da zero un vocabolario o un bagaglio di conoscenze. Quelli che, magari, a casa non hanno libri, che durante la didattica a distanza si sono contesi il computer con i fratelli, o i cui genitori non possono permettersi di far fare loro quelle esperienze che il “curriculum dello studente” può, vivaddio!, valorizzare come si deve.
Vorrei dunque chiedere che tipo di progetto educativo e formativo sia invitata a proporre una scuola il cui esame finale potrebbe permanentemente escludere lo svolgimento di prove scritte, dato che, per citare un vecchio adagio, verba volant, scripta manent, e la forma scritta del pensiero è sì suscettibile di meditazione e di lenta, accurata messa a punto, mentre nessun collegamento improvvisato tra il simbolo dell’infinito e Leopardi varrà mai una scaletta ragionata e pazientemente sviluppata, con attenzione alla sintassi, alla coesione formale, alla coerenza logica e, perché no, all’ortografia. Una scuola che sottopone a verifiche scritte i propri studenti per cinque anni, perché, per esempio, ciò che emerge dalla versione in Italiano di un passo non noto non sarà mai equivalente alla ripetizione mnemonica di una traduzione fatta da altri, ma che rinuncia poi a misurare le competenze faticosamente acquisite proprio in sede di bilancio del percorso concluso. Una scuola che si astiene dall’”interrogare” e “dialoga” con gli studenti, come se fare domande fosse un’operazione vergognosa e reazionaria, e l’acquisizione della conoscenza non fosse un processo faticoso e paziente (e non tra pari) che solo un accertamento rigoroso della stessa può valutare, e che solo uno studio anche di dati e date (quindi, anche mnemonico, oltre che, ovviamente, ragionato) può fornire.
Vorrei anche chiedere che tipo di società sia quella coerente con tale idea di scuola: parliamo volentieri di “merito”, di “competenza”, di “qualità”, di “serietà”, di “valori”, di “diritti”. Ma tra essi figura, appunto, quello a un’istruzione (di qualità), il cui contraltare è il dovere di studiare (per gli allievi), e di verificare seriamente quanto da essi appreso (per i docenti). Per questo credo che la dignità formale dell’Esame – che va sicuramente ripensato, ma non mutilandolo di una sua parte essenziale – sia il riflesso di quella, sostanziale, del progetto formativo che trova in esso il suo coronamento: se giocare al ribasso, con formule semplificatorie, non è mai auspicabile, presentare tale semplificazione come una miglioria e una scelta di qualità può riuscire perfino mortificante per chi nella scuola lavora, ma anche per chi, in generale, alla scuola affida i propri figli, o comunque nella scuola crede, e, a mio modesto parere, dovrebbe esserlo anche per chi frequenta la scuola da discente.
Il Ministro, però, ha dichiarato che dagli studenti sta ottenendo “riscontri positivi” circa l’attuale formula di Esame di Stato: nel rallegrarmene per lui, faccio sommessamente presente che, tuttavia, sarebbe corretto chieder un parere al proposito anche agli insegnanti, essi pure attori della scuola, anche se, evidentemente, trascurabili rispetto ai loro allievi.
Ilaria Rizzini
Pavia
htt p: //ch ng. it/W52 H6 Pp6
Ciò che mi ha spinto a rompere gli indugi (dopo anni di malumori covati nei corridoi e nei gruppi più o meno ristretti di colleghi e amici, di ministro in ministro, di riforma in riforma) sono state le recenti dichiarazioni del Professor Patrizio Bianchi circa la possibilità di mettere a regime l’attuale formula dell’Esame di Stato, che non prevede prove scritte e si incentra sulla discussione di un elaborato prodotto dal candidato e sulla progettazione, da parte sua, di un percorso multidisciplinare a partire da “materiali” che la commissione gli sottopone.
Tale soluzione era stata pensata in una situazione di emergenza - correva il disgraziato anno scolastico 2019/2020, e tutti noi muovevamo i primi, incerti passi nel mondo della didattica a distanza - e presentata proprio come la risposta urgente e temporanea a una situazione imprevista e imprevedibile. Urgente, appunto, e temporanea, come tutto ciò che viene abborracciato per tamponare una falla, in attesa di tempi migliori e di soluzioni più meditate ed efficaci. Mi preme sottolineare che le dichiarazioni del Ministro hanno rappresentato per me la ben nota goccia che fa traboccare un vaso già colmo: voglio dire che, con questa mia, non intendo intraprendere una crociata in difesa dell’Esame di Stato in sé, né delle prove scritte in sé, ma ragionare su ciò che la definitiva abolizione di esse sottenderebbe e implicherebbe nell’ottica più generale della deriva e dello scadimento di qualità del sistema scolastico nazionale.
Il Ministro ha infatti sostenuto che produrre un elaborato in lingua italiana (usare il termine “tema” fa incorrere ormai in peccato mortale, ma mi piace ricordare l’etimo della parola: deverbativo dal greco τιθέναι, “porre”, il sostantivo denota semplicemente un argomento posto all’attenzione di qualcuno chiamato a svilupparlo) sulla base di una traccia tra le varie proposte, e tradurre e commentare un brano dal Greco o dal Latino, o svolgere un elaborato di Matematica, o risolvere un problema di Economia aziendale, o di Estimo, o di Progettazione, o di qualsivoglia disciplina tradizionalmente oggetto della cosiddetta seconda prova… sia qualcosa che a lui ricorda tanto “un esame lotteria”, a fronte della meditata messa a punto di un elaborato il cui argomento viene assegnato al candidato un mese prima della data fissata per la consegna.
Tralascio il fatto che, dato che le tracce per la Prima e la Seconda prova erano stilate da un’apposita Commissione ministeriale, esse stesse avrebbero dovuto essere frutto di meditazione ragionata, e non certo di improvvisazione casuale; spiace quindi apprendere che anni e anni di esami di Stato (ex esami di Maturità, perché, si sa, cambiare le etichette è più semplice che innovare i contenuti, et nomina [non] sunt consequentia rerum) siano stati condotti all’insegna del caso, e non del tentativo di calibrare accurati strumenti di misurazione delle conoscenze, delle capacità e, da ultimo, delle competenze dei candidati.
Tralascio altresì il fatto che, come io stessa ho avuto modo di constatare, da quando esiste l’elaborato “argomentato e meditato”, sia esso di Greco o di Pedagogia, esiste anche un fiorente mercato di elaborati svolti da qualcuno che non è il candidato, ma di cui costui si attribuisce la paternità. Tuttavia, non è questa la sede per polemizzare su simili “quisquilie”. Del resto, nel corso di questo secondo, infelice anno di DaD mi è stato detto più volte che infuriarmi perché gli studenti copiavano durante le verifiche a distanza era stupido e anche un po’ infantile, dato che la pratica della copiatura appartiene fisiologicamente alla scuola e al “gioco delle parti” studente/docente, a maggior ragione in un periodo in cui i ragazzi pativano le conseguenze psicologiche del confinamento e della ridotta socialità. Benché mi sia sforzata, ammetto i miei limiti: ancora adesso non sono riuscita a cogliere il rapporto di causa-effetto tra la depressione indotta dalla pandemia e l’incremento delle copiature; lungi dall’avermi resa più indulgente, tutto ciò mi ha invece permesso di capire che l’Educazione civica, da poco assurta ai fasti di materia curricolare, deve essere anch’essa praticata a livello di pura speculazione, perché richiederne l’applicazione ai comportamenti quotidiani è ormai mera espressione di passatismo: come sempre, l’importante è saperlo.
Ma, appunto, lasciamo perdere questi risvolti di piccolo cabotaggio. Torniamo ai massimi sistemi: il Ministro sostiene che chiedere a uno studente che si accinge a chiudere un quinquennio di scuola superiore e, spesso, a iscriversi a una facoltà universitaria, di esprimere il proprio pensiero in lingua italiana su una traccia da lui scelta, e dimostrare di avere acquisito le competenze base del proprio corso di studi, sia equiparabile a una “lotteria”. Quindi, pensare, e poi esprimere il proprio pensiero sarebbero operazioni affidate al capriccio della sorte, come l’estrazione del biglietto vincente alla pesca dell’oratorio. Quindi, affrontare un problema applicando metodi e strumenti acquisiti, e scegliendo tra essi i più adatti allo scopo, risponderebbe al principio del caso, come risultare il vincitore del primo premio di una riffa di quartiere. Allora io mi chiedo: se tutto è così indegnamente casuale, perché si dovrebbe continuare a sottoporre gli studenti a verifiche scritte e orali di cui ignorino in anticipo i quesiti? Perché dare loro un brano da tradurre a prima vista? Perché non inviare loro il testo di ogni prova in anticipo, in maniera che la “lotteria” si trasformi in “articolazione di un pensiero complesso”, con tutto il tempo per compiere quest’operazione a casa propria? Siffatto modello sarà poi da esportare anche in sede universitaria, dove a tutt’oggi gli esami sono mere “lotterie”, dato che non mi risulta che ai candidati vengano forniti in anticipo i quesiti a cui rispondere e le tracce da sviluppare (o, almeno, che ciò, qualora accada, sia ritenuto lecito).
L’attuale Esame ha poi formalmente abolito le domande: al candidato non si può chiedere nulla; con lui si deve “discutere”; non lo si può “interrogare”: con lui si “interloquisce”. Per evitare di scadere nel nozionismo, il cuore pulsante del colloquio è costituito appunto da un excursus pluridisciplinare che il candidato costruisce estemporaneamente sulla base di “materiali” forniti dalla Commissione. Così egli potrà mostrare davvero quali competenze abbia acquisito nel corso del quinquennio di scuola superiore.
Tralascio il fatto che “estemporaneamente” è una mera ipotesi di lavoro, o, meglio, talvolta solo una pia illusione. Ho potuto personalmente constatare che parecchie commissioni abbinano i suddetti “materiali” ai candidati in anticipo sulla prova, e gli abbinamenti vengono comunicati agli stessi da solerti commissari che vogliono il bene dei loro studenti più di quanto, evidentemente, io e altri come me vogliamo quello dei nostri: del resto, italico more, “fatta la legge trovato l’inganno”, perché sì, la normativa impone che tale procedura venga operata ogni mattina, immediatamente prima che i candidati varchino la soglia dell’aula dove si svolgerà il colloquio, ma spesso ciò non accade (e vale lo stesso discorso a proposito del testo noto di letteratura italiana la cui analisi costituisce la seconda parte del colloquio: ho visto candidati che cominciavano a parlarne prima ancora che il docente proiettasse il passo sulla Lim).
Tralascio altresì il fatto che l’individuazione dei “materiali” è un’operazione dagli esiti davvero “a lotteria”, dato che ho personalmente constatato che ogni commissione interpreta la cosa a modo suo, e davvero “commissione che vai, materiali che trovi” (fotografie di luoghi, di opere d’arte, di personaggi storici, di perfetti sconosciuti, citazioni estrapolate da qualsivoglia contesto, formule matematiche, figure geometriche…).
Ma non posso tralasciare il fatto che, sottoposto al candidato il suddetto materiale, a costui sia richiesto di creare collegamenti pluridisciplinari che, nella migliore delle ipotesi, funzionano per due/tre materie, per poi aggrapparsi all’esile omografia (Resistenza: fenomeno storico, ma anche parte del circuito elettrico…) o alla mera analogia (il simbolo dell’infinito: da Leopardi alla geografia astronomica il passo è breve). Quindi, la capacità di esprimersi e di ragionare, che un elaborato di Italiano o un compito di Matematica non possono sondare, può veramente emergere da labili collegamenti spesso davvero mortificanti (per chi è costretto a produrli, oltre che per chi è tenuto ad ascoltarli) ? Tale procedura, detto per inciso, favorisce i candidati più disinvolti, non necessariamente quelli che hanno studiato di più o con più fatica, e che magari hanno penato per costruirsi da zero un vocabolario o un bagaglio di conoscenze. Quelli che, magari, a casa non hanno libri, che durante la didattica a distanza si sono contesi il computer con i fratelli, o i cui genitori non possono permettersi di far fare loro quelle esperienze che il “curriculum dello studente” può, vivaddio!, valorizzare come si deve.
Vorrei dunque chiedere che tipo di progetto educativo e formativo sia invitata a proporre una scuola il cui esame finale potrebbe permanentemente escludere lo svolgimento di prove scritte, dato che, per citare un vecchio adagio, verba volant, scripta manent, e la forma scritta del pensiero è sì suscettibile di meditazione e di lenta, accurata messa a punto, mentre nessun collegamento improvvisato tra il simbolo dell’infinito e Leopardi varrà mai una scaletta ragionata e pazientemente sviluppata, con attenzione alla sintassi, alla coesione formale, alla coerenza logica e, perché no, all’ortografia. Una scuola che sottopone a verifiche scritte i propri studenti per cinque anni, perché, per esempio, ciò che emerge dalla versione in Italiano di un passo non noto non sarà mai equivalente alla ripetizione mnemonica di una traduzione fatta da altri, ma che rinuncia poi a misurare le competenze faticosamente acquisite proprio in sede di bilancio del percorso concluso. Una scuola che si astiene dall’”interrogare” e “dialoga” con gli studenti, come se fare domande fosse un’operazione vergognosa e reazionaria, e l’acquisizione della conoscenza non fosse un processo faticoso e paziente (e non tra pari) che solo un accertamento rigoroso della stessa può valutare, e che solo uno studio anche di dati e date (quindi, anche mnemonico, oltre che, ovviamente, ragionato) può fornire.
Vorrei anche chiedere che tipo di società sia quella coerente con tale idea di scuola: parliamo volentieri di “merito”, di “competenza”, di “qualità”, di “serietà”, di “valori”, di “diritti”. Ma tra essi figura, appunto, quello a un’istruzione (di qualità), il cui contraltare è il dovere di studiare (per gli allievi), e di verificare seriamente quanto da essi appreso (per i docenti). Per questo credo che la dignità formale dell’Esame – che va sicuramente ripensato, ma non mutilandolo di una sua parte essenziale – sia il riflesso di quella, sostanziale, del progetto formativo che trova in esso il suo coronamento: se giocare al ribasso, con formule semplificatorie, non è mai auspicabile, presentare tale semplificazione come una miglioria e una scelta di qualità può riuscire perfino mortificante per chi nella scuola lavora, ma anche per chi, in generale, alla scuola affida i propri figli, o comunque nella scuola crede, e, a mio modesto parere, dovrebbe esserlo anche per chi frequenta la scuola da discente.
Il Ministro, però, ha dichiarato che dagli studenti sta ottenendo “riscontri positivi” circa l’attuale formula di Esame di Stato: nel rallegrarmene per lui, faccio sommessamente presente che, tuttavia, sarebbe corretto chieder un parere al proposito anche agli insegnanti, essi pure attori della scuola, anche se, evidentemente, trascurabili rispetto ai loro allievi.
Ilaria Rizzini
Pavia
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Da: Ilaria Rizzini
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