Gioacchino Murat

Gioacchino Murat

Gioacchino Murat

Biografia Ardore e ingenuità

Gioacchino Murat nasce a Labastide-Fortunière, Cahors, il 25 marzo 1767. Destinato dal padre locandiere alla vita ecclesiastica, a vent'anni lascia il seminario per abbracciare quella militare. Si arruola come postiglione in un reggimento di cacciatori a cavallo e già sei anni dopo, nel 1793, raggiunge lo status di ufficiale, iniziando a collaborare con Napoleone Bonaparte che gli conferisce, nel 1796, il grado di generale di brigata fino a diventare suo aiutante di campo.

In tale veste, il 21 luglio 1798, partecipa e contribuisce in modo decisivo alla vittoria nella battaglia delle Piramidi e l'anno successivo guida la spedizione in Siria. Rientrato in Francia è fra i più efficaci collaboratori nel colpo di Stato attuato da Napoleone nel novembre 1799 quando, alla guida dei granatieri, estromette da Saint-Cloud i deputati del Consiglio dei Cinquecento guadagnandosi la nomina di Comandante della Guardia Consolare. Rinsalda ulteriormente il legame con l'imperatore sposandone la sorella Carolina Bonaparte, il 22 gennaio 1800.

Nel 1804 ottiene l'altissimo riconoscimento di Maresciallo di Francia. Quattro anni dopo l'imperatore gli offre la corona di Napoli, lasciata libera da Giuseppe Bonaparte chiamato al trono di Spagna. Si insedia, dunque, con il nome di Gioacchino Napoleone e, anche in funzione della dichiarazione dell'imperatore di riconoscere piena autonomia al regno, all'atto della sua conquista, avvia una politica di progressivo affrancamento dall'influenza - vista sempre più come ingerenza - della Francia.

In questa missione, che egli immagina proiettata verso l'unificazione nazionale italiana, trova utile supporto nel prefetto di polizia e consigliere di Stato Antonio Maghella il quale si occupa, tra l'altro, degli allacciamenti con la Carboneria.

Nel 1812 combatte in Russia al fianco dell'imperatore ma due anni dopo, in seguito alle sorti avverse di Napoleone, avvia segretamente contatti con l'Austria, inviandovi il principe di Cariati, e con gli inglesi, incontrando personalmente un delegato di lord Bentinck, a Ponza. Da tali manovre scaturisce un accordo con le due potenze che gli garantiscono la conservazione della corona. Ma il Congresso di Vienna, che apre l'età della Restaurazione, decide la restituzione ai Borboni del regno di Napoli: Murat dichiara guerra all'Austria, si riavvicina a Napoleone, che nel frattempo è fuggito dall'esilio dell'Elba, e parte con il suo esercito alla conquista dell'Italia del nord.

Al suo comando annovera, fra gli altri, i generali Caracciolo, Pignatelli, Pepe, D'Ambrosio. Dalle Marche entra nelle Romagne ed il 20 marzo del 1815, giunto a Rimini, lancia un accorato appello, redatto da Pellegrino Rossi, con il quale chiama tutti gli italiani a stringersi intorno a lui esortandoli alla rivolta per la conquista dell'unità e dell'indipendenza nazionale.

Il gesto del Murat riaccende le speranze del trentenne Alessandro Manzoni, da sempre animato da grande spirito patriottico, il quale avvia di getto la stesura della canzone "Il proclama di Rimini", rimasta poi inconclusa proprio come l'iniziativa murattiana. Manzoni a parte, però, la diffidenza italiana verso i francesi fa sì che l'appello cada inascoltato. Dopo un primo successo sugli austriaci, presso il Panaro, re Gioacchino viene sconfitto il 3 maggio, a Tolentino. Arretra fino a Pescara, dove promulga una costituzione nel tentativo di ottenere l'agognato sostegno popolare, ma tutto si rivela vano. Incarica allora i generali Carrosca e Colletta - futuro autore, quest'ultimo, della celebre "Storia del reame di Napoli" - di trattare la resa, che avviene il 20 maggio, con la sottoscrizione della convenzione di Casalanza, presso Capua, con la quale si riconsegnano ai Borboni i territori del regno.

Ripara in Corsica, mentre Napoleone si avvia verso la definitiva caduta che avverrà pochi giorni dopo, a Waterloo. In Corsica gli giungono notizie di malcontento nella popolazione del suo ex regno per cui, nel settembre 1815, riparte alla volta della Campania con sei barche a vela e duecentocinquanta uomini, con l'obiettivo di far leva sul malessere della gente per riprendere il trono perduto. Ma una tempesta disperde la piccola flotta: la sua barca, insieme ad un'altra superstite, approda l'8 ottobre a Pizzo Calabro.

Entrato in paese con una trentina di uomini trova, da parte della gente del posto, l'indifferenza di alcuni e l'ostilità di altri; mentre si appresta ad incamminarsi verso un paese vicino, con la speranza di trovare migliore accoglienza, sopraggiungono le truppe regie. Catturato, viene processato e condannato a morte da una corte marziale.

Non gli rimane che compiere un ultimo atto: scrivere poche, drammatiche righe di commiato alla moglie ed ai figli. Viene giustiziato con sei colpi di fucile, il 13 ottobre 1815, nella corte del castello di Pizzo, che da allora è detto anche castello di Murat. Ha soltanto 48 anni.

Gli anni del regno murattiano rappresentano per l'Italia Meridionale, una fase di risveglio e di rinascita: re Gioacchino porta a compimento l'Eversione della feudalità, già avviata da Giuseppe Bonaparte, favorendo la nascita della borghesia terriera e sviluppando relazioni commerciali con la Francia; attua il riordinamento amministrativo e giudiziario, con l'introduzione dei codici napoleonici; istituisce il "Corpo di Ingegneri di ponti e strade", dando così un forte impulso ai lavori pubblici; incoraggia la cultura e l'istruzione pubblica, introducendo principi di uguaglianza e di uniformità.

Il suo attaccamento viscerale al regno ed al popolo e la sua dedizione totale all'idea di unificazione nazionale lo rendono un personaggio di primo piano nella storia italiana. Il primo documento ufficiale che parla di Italia unita e libera è rappresentato proprio dal suo proclama di Rimini: per alcuni storici è proprio con il "proclama" che nasce formalmente il Risorgimento italiano.

La sua figura di sovrano rimane contrassegnata da due aspetti: la buona fede, che tanti rimbrotti gli ha procurato da parte di Napoleone e che, dalla Corsica, lo determina a credere che le popolazioni meridionali attendono il suo ritorno, e l'ardimento, che sempre agli occhi di Napoleone fa di lui un grande soldato, un eroe, ma che lo induce anche a tentare l'impresa impossibile che gli costerà la vita.

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