Pietro Giordani
Biografia
Pietro Giordani nasce il 1° gennaio del 1774 a Piacenza, figlio di Teresa Sambuceti e di Giambattista Giordani, un possidente. Trascorre un'infanzia molto travagliata a causa di vari problemi di salute che ne indeboliscono il fisico e minano anche la sua autostima, ulteriormente danneggiata dai rapporti poco stabili con i genitori (il padre distratto dagli impegni civili, la madre bigotta e cagionevole).
Cresciuto taciturno e solitario, trova un parziale sollievo nella lettura dei testi che costellano la biblioteca del padre. Ancora ragazzo, Pietro Giordani mette in mostra una eccezionale capacità di apprendimento, anche nell'ambito delle scienze matematiche.
Gli studi
A undici anni entra a far parte della classe di umanità del collegio San Pietro, mentre a quattordici si trasferisce a Parma, dove frequenta i corsi di filosofia. Quindi, su ordine del padre si iscrive a Giurisprudenza, laureandosi nell'estate del 1795. Al conseguimento del titolo contribuisce la collaborazione di Luigi Uberto Giordani, un cugino docente di diritto, che se ne prende cura con affetto paterno.
Nel frattempo, Pietro si concentra anche sullo studio delle lingue classiche e della storia; ha modo di conoscere, inoltre, una donna più vecchia di lui di quindici anni, Rosa Milesi, con cui, dopo aver fatto ritorno a Piacenza, intrattiene un rapporto epistolare fino al 1800.
Le difficoltà famigliari e la religione
Avviato alla pratica legale contro voglia, sempre su impulso della famiglia, vive in una situazione di difficoltà per colpa della quale arriva addirittura a tentare il suicidio.
Divenuto ormai adulto, deve fare i conti con la propria dipendenza dai familiari, sia dal punto di vista psicologico che dal punto di vista economico, vivendo una situazione non molto lontana da quella di una prigionia. Il 1° gennaio del 1797 entrare in un ordine religioso, pur avendo manifestato in passato una certa insofferenza nei confronti di questo ambiente e del clero in generale. In questo modo prova a interrompere il legame con la madre, che ritiene opprimente, e a scordare l'amore mai consumato con Rosa.
Dopo avere conseguito il suddiaconato, vive nel monastero benedettino di San Sisto, non lontano da Piacenza. In seguito si trasferisce nella vicina Cotrebbia, insieme con altri monaci, cercando di resistere alla prima invasione francese e alla conseguente dispersione degli ordini religiosi.
Il ritorno alla vita laica
Resosi conto, tuttavia, che la vita monastica non fa decisamente al caso suo, torna a dedicarsi alla lettura dei classici. Scappa dal monastero in occasione della discesa in Italia di Napoleone Bonaparte in seguito al ritorno degli Austro-Russi.
A questo punto, però, non ha più la possibilità di rientrare in famiglia, e si mette in cerca di un lavoro a Milano. Trova alcuni impieghi minori offertigli dall'amministrazione napoleonica, dapprima in qualità di segretario di governo inviato in Toscana, a Massa, e poi in qualità di segretario del Dipartimento del Basso Po, a Ferrara.
Nel 1802 viene ridotto allo stato laicale dalla Santa Sede, che lo assolve da ogni censura su sua istanza. Trova poi un impiego in qualità di vicesegretario della prefettura di Ravenna, pur facendo di tutto per mostrare il proprio disprezzo nei confronti del lavoro burocratico.
Pietro Giordani e la passione per la letteratura
Grazie a tali mansioni, tuttavia, Pietro Giordani ha l'opportunità di entrare in contatto con la parte della società più dinamica. Ha modo di conoscere, per esempio, un funzionario napoleonico di nome Pietro Brighenti, con il quale condivide la passione per la letteratura e che, nel corso del tempo, diventa uno dei suoi amici più importanti.
Desideroso di insegnare, Giordani accetta una supplenza per la cattedra di eloquenza a Bologna, che lo obbliga a effettuare anche compiti di bibliotecario pur a fronte di un compenso non troppo elevato. Nel giro di breve tempo, tuttavia, deve lasciare la supplenza, che non gli viene rinnovata. Perde perfino il posto di bibliotecario a causa di alcune sue intemperanze.
Le opere
Diventato copista, nel 1805 scrive "Prima esercitazione scolastica d'un ignorante sopra un epitalamio di un poeta crostolio", mentre l'anno successivo porta a termine "L'Arpia messaggera, o Il corriere alato di Rubacervelli e Portavittoria", in cui prende di mira Vincenzo Monti (il testo, però, viene bloccato dalla censura).
Sempre nel 1806, Giordani si vede commissionata dall'Accademia di belle arti di Bologna un'"Orazione per le belle arti". Dopo un viaggio a Napoli, nel 1807 accetta la richiesta di celebrare Napoleone a Cesena, all'Accademia dei Filomati, accolto dal suo amico Brighenti. Ne deriva "Napoleone legislatore, ossia Panegirico allo imperator Napoleone per le sue imprese civili detto nell'Accademia di Cesena il XVI agosto MDCCCVII", con dedica al viceré Eugenio Beauharnais.
Nel 1810 Giordani scrive "Panegirico ad Antonio Canova" e "Sulla vita e sulle opere del cardinal Sforza Pallavicino". L'anno successivo completa "Sopra un dipinto del cav. Landi e uno del cav. Camuccini". Dopo avere concluso nel 1815 "Discorso per le tre legazioni riacquistate dal papa", nel 1816 realizza "L'Alicarnasso del Masi".
Giordani e il classicismo
Il 1º gennaio 1816, nel primo numero de La Biblioteca italiana, appare un suo articolo dal titolo "Sulla maniera ed utilità delle traduzioni". Si tratta della traduzione di un articolo di Madame de Staël, attraverso il quale la scrittrice invita gli italiani ad uscire dall'isolamento e dal provincialismo delle loro tradizioni letterarie. L'invito è quello di abbandonare il continuo riferimento a una ormai logora e anacronistica mitologia per accostarsi alla moderna letteratura straniera. Si tratta di un'accusa di arretratezza ai letterati italiani.
L'articolo offre a Pietro Giordani l'occasione di esprimersi sul principio fondamentale del classicismo: l'esistenza di una perfezione nell'arte, raggiunta la quale non resta che rifarsi a quelle opere perfette, pena la decadenza. I letterati italiani già da secoli imitavano i poeti classici e l'imitazione degli stranieri avrebbe invece offuscato l'italianità dell'espressione letteraria.
I dialetti e la lingua nazionale
Nel secondo numero della rivista (Biblioteca Italiana, febbraio 1816), Giordani condanna l'iniziativa dell'editore Francesco Cherubini, in cui vedeva l'affermazione della poesia dialettale. Giordani si schiera invece per l'uso della comune lingua nazionale, solo "istrumento a mantenere e diffondere la civiltà" e premessa al miglioramento delle classi inferiori della società. Per quanto favorevole alla composizione di vocabolari dialettali per favorire l'apprendimento della lingua italiana, i dialetti secondo lui non potevano acquisire dignità letteraria.
Lo stesso problema irrisolto dell'unità nazionale si univa per lui al problema della diffusione di una lingua comune fra tutte le popolazioni italiane. In risposta, Carlo Porta non perse naturalmente l'occasione di indirizzargli dodici sonetti satirici, chiamandolo abaa don Giovan.
Gli ultimi anni
Successivamente si trasferisce a Firenze, dove - approfittando di un clima decisamente libero e vivace, almeno dal punto di vista intellettuale - vive il più felice periodo della propria esistenza. Anche perché può godere dell'ammirazione delle principali istituzioni del posto, dalla Colombaria alla Crusca, passando per i Georgofili e l'Accademia pistoiese, ma anche di numerosi uomini di cultura.
Presto ritornerò a questa lieta Firenze, dove solamente posso vivere.
Nel 1845, infine, scrive il "Proemio al terzo volume delle opere di Giacomo Leopardi".
Pietro Giordani muore il 2 settembre del 1848 a Parma.
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