Cat Stevens
Biografia • Un lungo viaggio
Nato a Londra il 21 luglio 1947 da genitori greco-svedesi, Steven Georgiou, in arte Cat Stevens, entra nel mondo del folk nel 1966 scoperto da Mike Hurst, ex Springfield. Il giovane Stevens nutre interesse per la musica popolare greca e le prime canzoni riflettono le sue origini, anche se senza dubbio influenzate da contaminazioni inglesi e americane.
Mike Hurst produce dunque il primo singolo per la Deram, "I love my dog", cui fanno seguito due discreti successi nel 1967: la famosa "Matthew and son" (n.2 in classifica) e "I'm gonna get me a gun".
Iì primo album, "Matthew and son", procura a Cat Stevens una notevole pubblicità grazie anche a due brani portati al successo da altri artisti: "The first cut is the deepest" (P.P Arnold) e "Here comes my baby" (Tremeloes). Il momento di grazia è confermato da una serie di tour inglesi con artisti dal nome altisonante quali Jimi Hendrix e Engelbert Humperdinck. Alla fine del 1967 tuttavia Stevens subisce una profonda crisi spirituale: è stanco di fare la pop-star, disilluso dalle false promesse garantite da quel ruolo e refrattario ad ulteriori compromessi. Inoltre soffre di una grave forma di tubercolosi che lo costringerà a restare lontano dalle scene per due anni.
Durante questo periodo di riposo forzato la sua creatività rimane comunque sempre accesa. Scrive parecchie canzoni, stavolta però con un taglio decisamente più impegnato. Il materiale che ne esce sarà la base del primo album del decennio che si sta aprendo, gli anni '70, il famoso "Mona Bone Jakon", poi rivelatosi grande successo di critica e di pubblico. Le bislacche composizioni post beat che lo avevano fatto conoscere nel decennio precedente lasciano il posto a delicati acquarelli d'autore, cantati con voce suadente e semplice accompagnamento (il chitarrista Alun Davies è il suo più fido collaboratore).
La formula si rivela felice e dopo aver sbancato con la celebre Lady D'Arbanville si ripete con "Tea for Tillermann" e soprattutto con la celeberrima "Father & Son", apologo strappacuore sul rapporto fra la vecchia e la nuova generazione. La buona fortuna di Cat Stevens prosegue almeno fino alla metà dei '70, con facili armonie che si rifanno alla tradizione (non solo britannica, ma anche a quella della mai dimenticata Grecia): "Moming has broken", "Peace train" e "Moonshadow" sono i pezzi più celebri del periodo.
Col tempo il repertorio si fa più ricercato (forse troppo), con orchestrazioni e uso degli strumenti elettronici che pesano sulla delicata vena originale. La critica mette in rilievo questa involuzione ma Stevens ha l'aria di non curarsene. Vive fuori dal "giro" rock, addirittura in Brasile (si dice per motivi fiscali) tiene rarissimi concerti e devolve buona parte dei suoi guadagni all'Unesco. Il distacco dalle cose del mondo non è solo misantropia ma un radicato segno di spiritualità. Nel 1979 Stevens lo dimostra in maniera clamorosa, convertendosi alla religione musulmana e spogliandosi di ogni bene (anche dei molti dischi d'oro guadagnati nel corso della carriera). Di lui, ormai ribattezzato Yosef Islam secondo il nuovo credo, si sono perse le tracce, se non per fugaci apparizioni.
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